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«Le inutili splendide fatiche riempiono la vita»

Il cavourese Carlo Degiovanni ha scritto un libro per parlare di sport, di montagna, ma soprattutto dell’importanza delle passioni, quando le si lascia libere di volare

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Carlo Degiovanni, cavourese dalla na­scita, ha da sempre la passione dello sport in generale, con una predilezione per quelli all’aria aperta e per la montagna, in tutte le sue forme. Una variegata serie di interessi che hanno portato alla scrittura del libro: “Marcia alpina, l’inutile splendida fatica”.
«Le passioni condivise», ci confida Degiovanni, «non possono essere affidate solo ai ricordi, ma devono lasciare traccia sul­la carta stampata. Serve per risvegliare nei protagonisti dei tempi andati antiche emozioni, ma anche e soprattutto per portare a conoscenza delle migliaia di attuali “corridori del cielo” le radici della loro faticosa passione sportiva».

Degiovanni, da dove nasce la sua passione per la montagna?
«Sto ancora cercando di capirlo. Credo che certe passioni si manifestino senza un motivo specifico, forse perché sono nato ai piedi della rocca di Cavour e non riesco a pensare a un ambiente senza asperità montane. Forse bisognerebbe chiedere alla montagna perché si è appassionata di me. Di certo mi piace la vita in discesa, ma per viverla in quel modo prima bisogna salire».

Cosa l’ha spinta a scrivere questo libro?

«Il desiderio di raccontare alle migliaia di corridori che oggi frequentano di corsa i sentieri di montagna, le loro radici ancorate a una disciplina un tempo chiamata “marcia alpina”. Uno sport povero, frequentato da immensi quanto sconosciuti campioni, di norma montanari o margari, trascurati dal mondo dei media sportivi. Una sorta di risarcimento ad atleti e organizzatori di uno sport ormai soppiantato dai più altisonanti “trail”, “sky race”, o “corsa in montagna”. Un altro “mondo dei vinti”, insomma, che io ho avuto il piacere di vivere».

Il titolo del suo libro definisce la fatica come “splendida ma inutile”, come mai questi aggettivi contrastanti?
«Perché la fatica delle corse sui monti non serve a nulla in sé, anzi, se esasperata può addirittura essere dannosa, ma nel contempo è splendida perché ti riempie la vita! Se si riesce a superare il concetto di fatica ci si ritrova in un mondo privilegiato, sospeso tra la filosofia e l’ascetismo».
Il libro è dedicato a Domenico Bruno Franco. Cosa rappresenta per lei questa figura?
«Lui per me è un amico e un compagno di avventura nel mondo dello sport. Gli dovevo la dedica di questo libro per ricordare a me (e a lui) le splendide domeniche passate insieme, impegnati in inutili fatiche. Il Monviso ce lo ha portato via il 10 agosto 2008 durante un “allenamento” per partecipare alla “Courmayeur-Champex- Chamonix”. Gli amici non si dimenticano!».

Ha impiegato molto tempo per portare a compimento questo volume?

«Direi di no! Quando le cose che vuoi dire ti sono chiare, passano dalla mente al computer da sole, senza mediazione. I ricordi della mia “carriera” sportiva erano già in parte scritti e il “lockdown” mi ha permesso di trasferirli su carta. Se le cose sono sentite confluiscono in un libro come un percorso su un sentiero in discesa».

A proposito di “lockdown”, cosa pensa di questo blocco sportivo per l’emergenza sanitaria?
«Penso che occorra una cosa difficile da scrivere in un Dpcm: tanto buon senso e re­sponsabilità individuale! Se si parla di una emergenza, tutto il resto deve essere messo in secondo piano. Tra marzo e giugno ci sono state scelte non condivisibili in relazione alla pratica della corsa e, soprattutto, delle corse sui sentieri alpini, però è pur vero che non tutto può essere dettagliato in modo differenziato tra grandi centri abitati e borgate di montagna. Come detto, occorre tanto buon senso e responsabilità, sapendo che occorre venirne fuori al più presto e nel modo migliore anche a costo di qualche rinuncia individuale. Le montagne sono sempre lì!».

Qual è il messaggio fondamentale che vorrebbe fare passare attraverso il suo libro?
«Il messaggio è quello di inseguire le proprie passioni, quelle che hanno contribuito ad arricchire il nostro vivere, alle quali non deve essere impedito di prendere il volo, specie se sono state condivise e hanno generato amicizie e storie che hanno arricchito e riempito i nostri anni di vita».

Delle tante imprese portate a compimento, quale definisce la più memorabile?
«Penso sia stata la scelta emotivamente molto pesante di assistere mia moglie, dalla quale ero separato da 13 anni, negli ultimi anni della sua lotta contro la leucemia conclusasi, purtroppo, con la sua morte. Raramente le “imprese” più importanti della vita sono quelle sportive e di ciò occorrerebbe esserne coscienti. Per quanto riguarda lo sport sono sempre stato un buon atleta con una (1) vittoria strepitosa alla “Tre rifugi della Val Pellice” del 1978 e numerosi piazzamenti nelle circa 800 gare disputate sui sentieri alpini. Devo dire, però, che da sempre ho aggiunto alla carriera agonistica quella organizzativa, dirigenziale e di preparatore per molti giovani, fin dal 1975».

BaNNER
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