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Post (anzi poesia) per papà e mamma

La delicatezza con cui un giovane campione di rugby scrive sui “social” dei genitori colpiti dal coronavirus mitiga l’amarezza per le troppe cattiverie sentite verso gli anziani. Perché la pandemia sta alimentando anche un vergognoso conflitto generazionale

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L’intento era non parlare di Covid, allontanare il pensiero dall’angoscia che lo imprigiona, poi però ci è capitato davanti un post bellissimo, che lenisce l’amarezza di troppe cattiverie ascoltate. L’epoca del Covid svela volti opposti, è gara di generosità ma anche palestra d’egoismi, c’è chi si spende per aiutare quanti soffrono, travolti dalla malattia o dalla crisi che ne è effetto, e chi bada a sé senza allungare lo sguardo, cinico, speculatore e freddo. C’è stata una spaccatura tra categorie professionali, con accuse di privilegi e sospetti di diseguaglianze, e tra popolazioni dai destini opposti: chiusure di frontiere e, talvolta, di cuore. Quella che più ci ha fatto male è però la spaccatura generazionale, taciuta per vergogna quando ha cominciato a insinuarsi, poi sussurrata, con qualche giovane (minoranza per fortuna) a considerare che il sacrificio è colpa dei vecchi, più vulnerabili e meno puniti dalle restrizioni, e con un politico, ahimè, che nel ricordare l’età elevata di tante vittime le definisce “persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese”. E chissà che effetto ha fatto in chi ha capelli bianchissimi e rughe l’eco di provvedimenti stranieri per curare su base anagrafica in caso di disponibilità limitate nelle terapie intensive. Gli scudi sollevati, abbiamo notato, contestano per lo più l’improduttività, ricordando i ruoli importanti ricoperti a tutti i livelli. Noi andiamo oltre. Ammettiamo anche che ci siano tanti anziani improduttivi. E allora? Hanno prodotto ieri per noi. E se non contribuiscono alla società con il lavoro lo fanno con i consigli, l’esperienza, l’amore. Perché gli anziani non sono una categoria astratta: sono i nostri nonni, i nostri genitori, quelli che ci accarezzavano i capelli da bambini e oggi sono piegati dal tempo. Il post che vogliamo condividere è una dedica per tutti loro, scritto da Maxime Mbandà, azzurro del rugby, nominato Cavaliere per il volontariato fatto sulle ambulanze di Parma durante il primo “lockdown”, davanti al coronavirus che ha colpito il papà e la mamma. «Perché sono i miei genitori. Perché ho sempre sperato di non trovarmi in questa situazione. Perché non se lo meritano, come non lo merita nessuno. Perché posso chiamarli per massimo un minuto ogni tot ore per non peggiorare la situazione. Perché toglie il respiro a loro dentro ma anche a me che sono fuori. Perché non posso stare lì con loro. Perché sono impotente. Perché in questo momento vorrei esserci io al posto loro. Perché l’uomo è tanto intelligente quanto stupido. Perché se ti dicono di tenere questa cazzo di mascherina e di rispettare il distanziamento non è per farti lamentare di quanto tutto questo sia fastidioso ma è per salvare chi ti sta intorno. Perché c’è ancora gente che pensa che tutto questo sia una finzione. Perché è sempre stato così: se non vedi non credi. Perché finché non lo provi sulla tua pelle o su quella dei tuoi cari non ti rendi conto. Perché la vita è una. Perché dovevo giocare contro l’Inghilterra e non volevano farmi preoccupare. Perché vorrei tornare indietro nel tempo. Perché il mio sogno da bambino era quello di inventare qualcosa che li facesse vivere per sempre. Perché non c’è cosa al mondo per me più importante della mia famiglia. Perché ti accorgi che da un giorno all’altro, in un istante, la tua vita possa essere sconvolta. Perché non mi è rimasto altro che aggrapparmi a un telefono e sperare».