“Io solo” racconta persone, parole, anime

Paolo Bergese, con la complicità di Andrea Vico, ha realizzato un documentario sul “lockdown”

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Erano due amici in “lockdown” che vo­levano raccontare il momento. E lo han­no fatto realizzando il documentario “Io solo”. I due in questione sono Andrea Vico, voce di Radio Alba e anima del programma “Andrea chi?” e Paolo Bergese, informatico in un’azienda del cuneese che vanta anche collaborazioni musicali di livello. Sul canale YouTube di Paolo Bergese (basta cercare “Paolo Bergese” nella barra di ricerca interna) si può vedere il risultato di ore di registrazione di testimonianze di persone comuni, raccolte in giro per la Granda, da Genola ad Alba, durante il primo “lockdown” e giornate intere dedicate al montag­gio, passaggio più che mai fondamentale per dare un senso compiuto al materiale raccolto.
Se a “Io solo” si volesse aggiungere un sottotitolo, lo si potrebbe benissimo prendere a prestito da uno degli ultimi testi di Nicolas Roncea (le cui canzoni fanno da accompagnamento al video; per i suoni ha dato una mano anche Claudio Salis e ha suonato Giulia Provenzano): “la vita non è quel che vedi, è quello che ti resta”.
Nel caso del documentario, il focus non è su quel che vedi, ovvero il “lockdown”, ma su quello che ti resta, ovvero ciò che rimane dell’esperienza di solitudine forzata, che ci ha costretto (ma da una parte anche permesso) di fare i conti con aspetti di noi spesso relegati in un angolo, schiacciati dalle incombenze della frenesia quotidiana.
Lo confermano le parole dello stesso Paolo Bergese: «In “Io solo” non si parla di Covid, ma di cosa abbiamo imparato da ciò che l’emergenza sanitaria ha determinato, ovvero un mo­mento di isolamento a cui quasi nessuno era abituato o pronto. Le persone intervistate, peraltro, non le co­noscevo. È Andrea che si è occupato del materiale video, scegliendo tra la sua cerchia di amici e conoscenze. Io mi sono ritrovato una mole immensa di materiale registrato, costituito da interviste di 5-10 minuti in cui ognuno parlava di sé. Ho provato ad ascoltarli ad occhi chiusi, più volte, per carpire da ognuno “l’elemento chiave” del proprio discorso. Una volta individuata la parola, l’ho evidenziata nel video, riportandone la definizione del dizionario per contestualizzare al meglio il pensiero degli intervistati».
Un’elaborazione grafica tutt’altro che scontata quella che supporta le immagini, in grado di qualificare ulteriormente il documentario.
«Scoprivo che cosa facessero gli intervistati man mano che vedevo i video; così alla fine, ho voluto riassumerne ognuno di loro con una frase (“Io” seguito da un nome che ne specifica la professione o il ruolo). A chiudere ogni intervento il disegno del contorno della persona, come a sottolineare che si è cercato di coglierne l’anima».
Perché “Io solo” può benissimo esser capovolto e diventare “Solo io”: ogni persona che parla nel video rivela un pezzo della propria essenza, sen­za nulla di artefatto intorno.
Perché farlo un video del genere? Il videomaker ha ben chiara la risposta: «Perché tra vent’anni, quando si parlerà di quella volta in cui siamo stati tutti a casa per il virus, andremo a riprendere il video e ci ricorderemo davvero di cosa è stato. Penso potrà servire an­che a far capire a chi oggi ha tre-quattro anni come mai quasi all’improvviso papà per un po’ è rimasto a casa tutto il giorno o mamma ha cucinato molto più del solito. Per me, poi, lavorare a questo video ha significato dare un senso a quel momento, senza limitarmi a stare a casa aspettando che passasse».