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Da Fossano ai vertici del baseball azzurro

Da poco più di un mese, a 40 anni, Lorenzo Avagnina ha concluso una carriera agonistica ricca di successi non solo a livello nazionale

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«Scusami, oggi e­ro irraggiungibile. Domani ci sono, non mi dovrei imboscare troppo». Riuscire a reperire telefonicamente Lorenzo “Lole” Ava­gnina non è la cosa più semplice del mondo, ma questo aspetto, forse, racconta già molte cose di lui. Aspirante arrampicatore, architetto mancato, pe­scatore per passione. Definirlo in una parola è veramente difficile. Anzi, quasi ci si dimentica quello che è ed è stato soprattutto nei suoi primi quarant’anni di vita: una vera leggenda del baseball italiano, partita da Fossano per poi scrivere pagine importantissime della storia dello sport azzurro.

Lorenzo, partiamo dalla fine. Poco più di un mese fa è arrivata la decisione di smettere: una scelta maturata nel tempo?
«Ad onor del vero, avevo già questa intenzione nel 2019. Poi, complice anche la pandemia, il San Marino mi ha chiesto un aiuto e io non mi sono fatto pregare. Fortunatamente è stata un’ottima stagione: ci siamo arresi soltanto in finale a Bologna e io credo di aver giocato a buoni livelli».

Che cosa l’ha spinta a ritirarsi?
«I tempi erano maturi. A quarant’anni credo sia giusto farsi da parte, anche perché lo sport ha bisogno di un riciclo costante, che consenta alle nuove leve di emergere. Noi “vecchietti” non dobbiamo togliere spazio a chi sta crescendo bene».

Ora, riavvolgiamo il nastro. Giocare a baseball non è la cosa più scontata per un bambino italiano. Come nacque l’amore per il diamante?

«Diciamo che fu un amore per vicinanza. Al tempo, a Fossano il campo si trovava in zona Santa Lucia e io abito a due passi da lì. Fu mio fratello a portarmici per la prima volta e da lì non ho più smesso».

A Fossano il debutto, ma fu ad Avigliana che arrivò la Serie A, quando capì che sarebbe stato il baseball la professione della sua vita?
«Forse proprio in quel momento. Dopo aver giocato con mio fratello a Fossano e Torino, per la prima volta ero da solo, perché lui aveva scelto di dedicarsi al lavoro di ingegnere. Con il raggiungimento della A iniziai a farmi notare da altre società e la scelta fu quasi obbligata. Mi spiace solo non aver proseguito con gli studi da architetto».

Con lo stop potrà riprenderli?
«Perché no. A quei tempi forse fui troppo istintivo. Mi mancavano pochissimi crediti e dovevo di fatto solo più redigere la tesi. Però poi arrivò la chiamata della Serie A e io scelsi il baseball».

Dal 2008 Grosseto, Rimini e infine San Marino, dal 2011 a oggi…

«A San Marino sono stato accolto dalla “capitale” del baseball italiano. Qui e nei dintorni c’è tutto il meglio del nostro sport e non ho fatto altro che crescere».

Tre campionati, due European Cup e poi la nazionale. Che sensazioni si provano a indossare la maglia azzurra?
«Sono fantastiche. Diciamo che per ogni sportivo italiano, qualunque sia lo sport che pratica, poter vestirla rappresenta l’apice. Io ho avuto la fortuna di entrarci in punta di piedi, per poi diventare un punto di riferimento dei più giovani».

E sono arrivate anche due vittorie agli Europei, non proprio roba da poco…
«Ricordi indelebili, soprattutto per quanto riguarda i secondi, nel 2012. I Paesi Bassi avevano ottenuto la possibilità di organizzare quella manifestazione: la fecero in casa perché volevano trionfare, festeggiando al meglio i trent’anni della Federazione. Peccato che sulla loro strada trovarono l’Italia più affamata di sempre. Molti di noi erano cresciuti insieme e giocammo ad altissimi livelli. Io alla fine fui anche premiato come miglior giocatore del torneo. Un riconoscimento che porto nel cuore».

È questo il ricordo più bello della sua carriera?
«No, dico la partecipazione al World baseball classic 2013, ovvero la massima competizione mondiale per nazionali, alla quale prendono parte anche i giocatori della Major League americana. Furono venticinque giorni pazzeschi: vivevamo in hotel a cinque stelle e ci spostavamo con voli “charter”, trattati da veri divi. Emozioni indescrivibili».

Se potesse, invece, che cosa cambierebbe del suo passato?
«Nulla a livello sportivo, forse qualcosa per quanto riguarda il contorno. Per esempio, avrei e­vitato di fare altri sport al di fuori del baseball, rischiando qualche infortunio di troppo. Ma si sa, io sono fatto così, fatico a stare fermo».

Ora che fermo resterà per scelta, che cosa farà?
«Ma qualche fermo! Nella mia infanzia c’è stata la Valle Stura: i miei genitori avevano una casa ai Bagni di Vinadio e io so­no cresciuto lì, stringendo le migliori amicizie ed innamorandomi della montagna. Ora che ho tempo, in montagna sto tornando stabilmente, perché ho iniziato ad arrampicare: pratico regolarmente questo sport e non escludo di poter alzare l’asticella nei prossimi mesi».

Quindi, potrebbe essere una buona ragione per tornare in Piemonte?
«Mai dire mai. Proprio in Piemonte l’arrampicata è a livelli altissimi, con alcuni dei migliori atleti in circolazione. Diciamo che non escludo di po­ter tornare, magari stabilendomi con la mia compagna proprio in Valle Stura. Del resto anche la mia tesi di laurea abbozzata era proprio incentrata sulla riqualificazione di alcune aree in quella zona…».

E il baseball?
«Il coronavirus ha messo un po’ tutti in “standby”, complice anche la difficoltà di un movimento che ancora fatica a reggersi sulle proprie gambe. Se arrivasse la chiamata giusta per collaborare, probabilmente direi di sì, ma per il momento… pos­so pensare ad arrampicare» (ride, ndr).