Dal Monregalese agli Stati Uniti, passando per l’Europa, l’America Latina e la Cina. Top manager, con una ricetta semplice, basata su «umiltà, capacità di adattamento, ma soprattutto molto lavoro». È la storia di Gianluca Pettiti, partito dalla Granda e arrivato a rivestire un ruolo di vertice in una grande impresa statunitense quotata in Borsa, la Thermo Fisher Scientific, realtà peraltro impegnata in prima linea nella battaglia al Covid-19.
Chi è Gianluca Pettiti?
«Sono cresciuto a San Michele Mondovì e durante la carriera universitaria, vissuta al Politecnico tra Mondovì e Torino, ho sviluppato una sorta di istinto imprenditoriale. Ho affrontato il percorso per la tesi in General Electric a Mondovì, azienda dalla quale poi sono stato assunto. Dopo aver conseguito buoni risultati, sono stato assegnato al progetto “GE money”, la prima esperienza italiana di banca al consumo per General Electric. Ho ottenuto la promozione a manager in pianificazione e controllo per questa “startup”, per la quale all’inizio lavoravamo sostanzialmente in tre. Dopo un anno e mezzo eravamo in 300. Vivevo e lavoravo a Milano, all’epoca affittavo una stanza nell’appartamento di una signora benestante: era la camera della donna di servizio. Non potevo permettermi altro».
Quand’è arrivata la svolta?
«L’allora direttore finanziario lasciò GE per la Applied Biosystem, nel settore di biotecnologia, titolare della prima tecnologia di sequenziamento del Dna. Lo seguii. La sede finanziaria era a Rotterdam e, quindi, tutte le mie settimane lavorative avevano base in Olanda. Fui promosso direttore europeo della ripartizione pianificazione e controllo».
Si è poi trovato a un bivio…
«Nel 2008 la Applied venne acquisita e divenne Life Technologies. Presidente e direttore finanziario di Applied approdarono alla Daco e mi offrirono il posto di vicepresidente globale in ambito finanziario, la mia area di competenza. Dall’altra parte, Life Technologies invece mi prospettava una carriera da “business leader”, senza promesse ma con la prospettiva di realizzare il mio sogno di diventare direttore generale. La prima soluzione mi proponeva uno stipendio doppio, una chance enorme. Ma scelsi la seconda. La decisione migliore di tutta la mia carriera. A novembre 2009 mi dissero: “Preparati, ti imbarchiamo su un aereo e ti mandiamo in Brasile a gestire il nostro ‘business’ come direttore generale dell’America Latina”».
Era quindi tutto rose e fiori?
«Per niente. Il primo anno di esperienza brasiliana fu difficilissimo. Mi trovavo a gestire un “business” da 80 milioni di dollari, avendo peraltro poche nozioni circa i prodotti di laboratorio. Sullo sfondo, la complessità di un “multi-paese”, profondi cambiamenti di vita, la necessità di mantenere i grandi risultati conseguiti dall’azienda durante l’epidemia del virus dell’influenza A H1N1. Con l’aiuto del team, in tre anni raddoppiammo il “business”. Mi dissero che avevo superato le aspettative e che mi avrebbero assegnato la presidenza del “business” cinese di Life a partire dall’anno successivo, il 2013: 360 milioni di fatturato, una forza lavoro di 1.200 persone».
Come ha gestito questa ennesima novità?
«Avevo appena conosciuto Michele. Era una cantante piuttosto nota in Brasile e, oltre alla sua attività, aveva creato una società di produzione che gestiva altri artisti. Aveva un giro d’affari importante. Chiesi a lei cosa ne pensasse dell’opportunità. “Mi piace l’avventura, andiamoci assieme”, mi rispose».
Avventura che, guarda caso, è iniziata con un ulteriore cambiamento…
«Nel mio primo sbarco a Shangai, mi chiamò l’Ad dicendomi che Thermo Fisher aveva appena comprato Life Technologies. Nel 2014 gli affari in Cina andavano meno bene del solito, specie nel segmento industriale. Ma il “business” di Life Technologies andava in controtendenza, crescendo più del 15%. Visto il risultato, la nuova proprietà mi propose di rimanere in Cina per assumere la carica di presidente della divisione cinese. 1,2 miliardi di dollari di fatturato, 3 mila persone, più 8 fabbriche, un centro di ricerca e sviluppo. Ruolo importante ma pure critico, visto che il 40% della crescita di Thermo Fisher arrivava dal settore Cina. Grazie a quella esperienza ho strutturato relazioni col Governo, incontrato vicepresidenti, ministri, scambiando anche idee con il presidente americano Trump. “Made in China” poi sono anche i miei due figli, Lia e Nathan».
Arriviamo alla storia recente.
«A fine 2017 sono stato richiamato in California per dirigere il “business” “bioscience” di Thermo Fisher, focalizzato su coltura cellulare e biologia molecolare. Dopo due anni, la promozione a “senior vice president” e “president” del gruppo Diagnostica, un gruppo che fattura più di 4 miliardi di dollari annui, con 8 mila persone in tutto il mondo: ciò mi ha consentito di diventare uno degli “officer” della società e parte integrante del team “executive corporativo”. Quando ho iniziato, il mercato diagnostico era molto lento, era l’ottobre del 2019. Poi è arrivato il Covid-19 e tutto è cambiato».
In che modo?
«Eravamo la società che possedeva la tecnologia per effettuare il “rilevamento” del virus: distribuzione di tamponi, produzione del supporto tubolare con il “media” liquido che permette di trasportare il virus in modo sicuro e lo mantiene intatto per poterlo analizzare, reagenti chimici per manipolare il campione e prepararlo per le analisi, infine lo strumento di Pcr in tempo reale per analizzare se c’è virus o no. Prima dello scoppio della pandemia, producevamo qualche centinaio di migliaia di kit. Oggi siamo a 20 milioni di test a settimana e stiamo continuando ad aumentare».
Chiudiamo con le sue considerazioni sulla gestione dell’emergenza coronavirus. È corretta la strada intrapresa?
«Se la mortalità nella popolazione di età compresa tra 0 e 45 anni è di almeno dieci volte più bassa rispetto a quella che si registra nella fascia di età superiore e anche il tasso di ospedalizzazione è decisamente inferiore, è chiaro che l’approccio al Covid va differenziato, mantenendo il sistema socio-economico attivo, proteggendo chi deve essere protetto, garantendo al contempo l’efficienza del sistema sanitario. Il “lockdown” può causare più problemi del Covid stesso. A mio avviso, la mancanza della sofisticazione nell’analisi dei dati è un problema tanto grande quanto la pandemia stessa: in questo senso, nell’analisi dati, che dovrebbe essere la base del processo decisionale, il mondo sta fallendo».
Articolo a cura di Roberto Formento