Dio è morto. L’Equipe in Francia e As in Spagna scelgono lo stesso titolo per ricordare Diego Maradona: una foto grande quanto la copertina e la scritta che riassume la grandezza del personaggio. Non della persona, lasciatecelo dire, e pazienza se l’obiettività rischia d’essere confusa con il cinismo.
Partecipiamo alla celebrazione di un campione senza uguali, di un talento immenso che ha trasformato un bambino povero in re, e riconosciamo che dietro la dissolutezza c’era la fragilità, dietro il vizio la solitudine. Ammettiamo che pochi l’hanno aiutato e che una pletora di cattivi consiglieri e falsi amici l’ha spinto verso l’abisso, confessiamo il dolore peggiora riflettendo sulle testimonianze di chi l’ha descritto stanco di vivere. Ci dissociamo, però, dalle beatificazioni che profumano d’ipocrisia, soprattutto perché sostenute da chi sapeva nulla di Diego.
Che un amico, un familiare, ne giustifichi la debolezza e ne difenda le positività è legittimo, ma il buonismo postumo a buon prezzo di chi nulla sapeva è incomprensibile. O forse sì, ché in fondo vale per tutti, difatti si narra di un bambino in visita al cimitero, leggendo gli aggettivi sulle lapidi, chiese dove fossero seppelliti i cattivi.
Scremando gli eccessi, comunque condannabili, ché la morte richiede sempre pietà, abbiamo apprezzato chi ha avuto il coraggio dell’onestà consapevole d’essere impopolare. «Da giocatore non posso che inchinarmi alla sua grandezza, ma umanamente non l’ho apprezzato» dice Claudio Gentile, che lo fermò al Mondiale ’82 con una marcatura epica. «Non mi addentro, ma ho sempre pensato che un campione debba essere un esempio».
Il campione del mondo azzurro distingue campo e vita, non cambia idea dinanzi un addio triste, e Diego apprezzerebbe perché era assetato di sincerità, lui sempre inseguito da figure avide, abbagliate dal denaro e dal prestigio. La cantante Laura Pausini non ha accettato che la celebrazione abbia oscurato un tema delicato come la violenza contro le donne: «In Italia fa più notizia l’addio a un uomo sicuramente bravissimo a giocare al pallone ma davvero poco apprezzabile per mille cose personali diventate pubbliche, piuttosto che l’addio a tante donne maltrattate, violentate, abusate».
È stata criticata aspramente sui social, qualcuno l’ha sostenuta e difesa, semplicemente ha avuto la forza di esprimere un pensiero che sapeva scomodo nel clima di perdono che non si limita a dimenticare il peccato ma esalta l’autore fino alla santificazione. E d’altronde la processione alla camera ardente, i pellegrinaggi sulla tomba, gli altari improvvisati attorno alla sua effigie a Buenos Aires come a Napoli, il murale tra le macerie di case siriane bombardate e la bandiera appesa al convento delle suore di clausura, raccontano un rito laico, una commistione di sacro e profano.
Forse succede per troppo amore verso Diego: è la gratitudine verso il campione a cancellare gli errori dell’uomo, è un modo per ricambiare le emozioni ricevute quando accarezzava il pallone o quando organizzò un’amichevole nel fango per aiutare un bambino malato.
Anche davanti a questa riflessione, ci assale però la malinconia, e ci tornano in mente altre parole isolate tra le migliaia, spesso inutili, di questi giorni, quelle di Jurgen Klopp, allenatore del Liverpool: «Quando assisto alle reazioni causate dalla sua scomparsa in giro per il mondo, mi dico che se gli avessimo dimostrato il nostro amore quando era ancora con noi, senza provare a fare un “selfie”, ma solo mostrandogli il rispetto che meritava, penso che avremmo potuto aiutarlo».