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«Guardo con fiducia a un vaccino sicuro e a nuove terapie»

La microbiologa e virologa dell’ospedale “Sacco” di Milano Maria Rita Gismondo suggerisce l’utilizzo di anticorpi monoclonali

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Mai banali e sempre supportate da prove scien­tifiche, non sono passate inosservate, in queste settimane, le considerazioni sul­la pandemia offerte da Maria Rita Gismondo, direttrice del laboratorio di microbiologia clinica, vi­rologia e diagnostica delle bioemergenze presso l’ospedale “Sac­co” di Milano. Noi della Ri­vista IDEA l’abbiamo intervistata.

Professoressa, nel suo libro “Om­bre allo specchio”, parla de­­gli errori commessi durante la gestione dell’emergenza Covid-19. Qual è stato il più grave?
«La comunicazione. Troppa, sbagliata e strumentalizzata».

L’attuale emergenza ha evidenziato come il sistema sanitario italiano sia carente di alcune fi­gu­re mediche. Da profonda co­noscitrice sia del mondo sa­ni­tario che di quello accademico, di chi è la colpa?
«Dei governi degli ultimi dieci anni. Hanno ridotto la sanità pubblica al lumicino e sono re­sponsabili di molti disagi at­tua­li e, purtroppo, di morti».

Qual è stata, invece, la scelta più azzec­cata? Sempre che ci sia stata…

«Faccio fatica a ricordarne una… Forse, aumentare i posti letto in terapia intensiva, ma non è stata una scelta, piuttosto un’impellente necessità a parziale recupero del disastro attuale».

In queste settimane ha provato più paura o più sconforto?
«Sconforto».

Sul vaccino, in più di un’occasione, ha invitato alla prudenza. Ha ricevuto le rassicurazioni che si aspettava?
«Sono sempre stata a favore dei vaccini e solo con le vaccinazioni di massa siamo riusciti a de­bellare tante malattie infettive. Quello che ripeto è che bisogna scegliere un vaccino sicuro, perché l’obiettivo è l’efficacia, ancora non conosciuta, ma anche la mancanza di effetti collaterali».

Sarà il vaccino a cancellare la pandemia oppure occorreranno anche altre misure?

«Non credo. Purtroppo, ci aspetta ancora una strada difficile da percorrere».

Nel libro parla anche di bioterrorismo. Qualcuno pensa che già questa pandemia sia il frutto di un’azione nata a tavolino o, me­glio, in laboratorio…

«Se fosse stato bioterrorismo, sa­rebbe molto difficile saperlo. Ad oggi, comunque, l’origine di Sars-Cov-2 non è stato identificata».

Al di là del vaccino, a cosa possiamo appigliarci?
«Al fatto che tutte le pandemie sono passate, anche quando non avevamo alcun mezzo per curarle. Guardo con ottimismo alle nuo­ve terapie, come, per esempio, gli anticorpi monoclonali».

Il fatto di essere annoverata tra i biologi più competenti e preparati del Paese la inorgoglisce? È quello che desiderava?
«Da piccola ero molto vicina a uno zio medico che si dedicava anche alla ricerca. Lo sentivo parlare con tanto entusiasmo. Ri­cordo anche che era disponibile sempre per tutti, a qualsiasi ora, ed era un paladino della sanità pubblica. Sin da piccola ho so­gnato di essere come lui e, in par­te, ci sono riuscita».

Cosa le ha lasciato l’esperienza in prima linea contro la Sars?

«Nulla di comparabile con l’esperienza attuale. Eravamo convinti che la Sars non sarebbe mai arrivata in Italia e, in effetti, abbiamo avuto solo due casi. Ricordo, però, la corsa al test diagnostico, che mettemmo a punto in due giorni. Ovviamente il Ministero non ci rispose, mentre la Food and drug administration (“Agen­zia per gli alimenti e i medicinali”, abbreviato in Fda) lo approvò in una sola notte. È l’Italia! Pur­troppo, malgrado ci siamo fatti una certa esperienza, la lezione l’abbiamo presto dimenticata».

Qual è il progetto di cui va più orgogliosa?

«Tutti i progetti e tutte le ricerche hanno un sapore ineguagliabile. Ho un episodio che ricordo sempre e che, quando sono stanca, mi fa andare avanti. Molti anni fa, un bambino era in fin di vita e tutti erano concordi che sarebbe stato inutile preparare un autovaccino (vaccino che si preparava con gli stessi batteri isolati dal paziente). Io mi incaponii e lo preparai. “A questo punto”, disse il collega che lo aveva in cura, “glielo inoculiamo, ti facciamo contenta”. L’in­domani mattina seppi che il paziente stava già migliorando: si è salvato. Credo che anche solo per questo risultato sia valsa la pena di passare le notti in laboratorio e, spesso, dimenticare se stessi e, ahimè, la famiglia».