Luglio 1984. Sull’aereo partito da Barcellona e diretto a Napoli c’è un calciatore di 24 anni che si chiama Diego Armando Maradona e che sta cominciando a riscrivere la storia del calcio. Con lui, assieme ai cronisti al seguito, c’è anche Darwin Pastorin, 29enne inviato di Tuttosport, nato a San Paolo del Brasile, figlio di emigranti veronesi e cronista emergente del quotidiano sportivo torinese. Tra i due nasce un’amicizia che va oltre il rapporto professionale. Una fotografia ingiallita testimonia l’attimo, oltre ai riccioli dell’epoca.
Gennaio 1981. È al Mundialito ospitato dall’Uruguay e ribattezzato “Copa de oro” che Pastorin vede per la prima volta in azione Maradona. E poi, fuori dal campo, ne comprende la magia. Alla conferenza stampa organizzata in un albergo nel centro di Montevideo c’è una folla infinita di giornalisti e fotografi, una tensione estrema: tutti aspettano il “Pibe de oro” che a 20 anni è già un idolo. «Un grande personaggio, si capiva che sarebbe diventato straordinario. Lo vidi giocare contro il Brasile, si muoveva a tutto campo». La tappa successiva coincide con il “Mundial” di Spagna, quello della meravigliosa avventura degli azzurri di Bearzot. Pastorin è inviato al seguito del Brasile, ritrova Maradona che incontrando gli azzurri per la prima volta farà i conti con Gentile. E poi ecco l’altro incrocio, quel viaggio in aereo da Barcellona a Napoli, premessa di una leggenda. «Diego era molto emozionato, non vedeva l’ora di vivere la nuova esperienza. Sentiva l’attesa, si preparava a qualcosa di importante». Darwin ricorda, tra le altre, una domanda in particolare al numero 10 prima dell’atterraggio a Capodichino: «Conoscendo l’animo dei sudamericani, gli chiesi: come farai a non sentire la nostalgia per Buenos Aires?». La risposta: «Mi basterà aprire la finestra e ammirare il mare di Napoli». Diego sapeva essere poetico anche con le parole.
Altri incontri si sono ripetuti nel percorso della carriera di Diego e di Darwin: gli ultimi a Siviglia, nei momenti conclusivi da giocatore del primo, poi in Italia, a Formia, con il secondo direttore a Sky Sport: «Lo intervistai e lo abbracciai». Quando abbracciava, Maradona lo faceva sempre con grande e autentico trasporto. «Era un uomo sincero, molto disponibile e nelle interviste diceva sempre quello che pensava. Per noi giornalisti le sue parole erano sempre da prima pagina. Si affidava all’intuito, in campo come nella vita. Per questo ha anche commesso errori, ma li ha sempre pagati. È stato sempre sé stesso. In compenso ha distribuito felicità, l’ha regalata a tante persone. E avete visto, nei giorni della sua morte e anche oltre, quanta gente è scesa in strada per salutarlo, nonostante le restrizioni da Covid, alla Casa Rosada di Buenos Aires come allo stadio “San Paolo” di Napoli, che diventerà stadio “Maradona”. Ovunque. Il grande amore della gente per lui è ciò che resta. In tantissimi lo hanno amato per quello che ha saputo fare sui campi di calcio e per quello che ha rappresentato fuori: il riscatto del sud del mondo, dall’America latina fino a Napoli».
Perché un filo invisibile ha legato le due patrie di Maradona, da una parte all’altra. «Ha trovato una sintonia», osserva Pastorin, «tra Napoli e Buenos Aires, nei colori delle due città, nelle atmosfere. E si è sentito a casa, diventando un simbolo per i tifosi. Ha portato la sua squadra a vincere il primo scudetto, l’ha fatta conoscere nel mondo. Con la sua aria da “scugnizzo”, da ragazzo della gente. Difficile immaginare la stessa favola in un’altra città». Il cuore “brasiliano” di Darwin ha permesso al cronista di capirne immediatamente l’indole: «Perché Diego è stato amato in tutto il mondo, anche dai brasiliani, che pure non potevano esimersi dal confronto continuo con il grande Pelé. Ma ricordo l’affetto che lo circondava alla Copa America del 1989, giocata proprio in Brasile. Fu lì che lo vidi colpire un’incredibile traversa da centrocampo». Le immagini rivelano la prodezza. Una deludente Argentina impegnata contro l’Uruguay, Diego prende palla davanti alla difesa, entra nel cerchio di centrocampo e calcia subito, da distanza abissale: il pallone costringe gli spettatori a spalancare gli occhi, sale e scende giù, rimbalzando sulla traversa. E anche le bocche restano spalancate.
Novembre 2020, è il momento dell’addio. «Credeva negli altri», dice ancora Darwin, «ed è incappato in molti falsi amici. Apriva sempre le porte, aveva il senso dell’amicizia. Posso raccontare delle sue numerose iniziative di beneficenza, fatte sempre lontano dai riflettori. Chi oggi lo attacca, non ha conosciuto Diego Armando Maradona».
«Il mio Maradona un eroe generoso regala gioia»
La testimonianza di Darwin Pastorin: «Sull’aereo da Barcellona a Napoli, prima dei miracoli»