Nel corso della chiacchierata telefonica con lo chef Pasquale Laera, avvenuta qualche giorno prima della riapertura dei ristoranti sino alle 18, non si è mai fatto cenno al Covid. Non certo perché l’emergenza sanitaria non incida anche sulla sua vita o, ancor di più, sulla sua professione. Il punto è un altro: Pasquale Laera è uno che prova a immaginare quello che sarà e non si ferma a ciò che vede di fronte a sé.
Lo conferma anche il suo racconto su come sia iniziata l’avventura del nuovo ristorante “Borgo Sant’Anna” a Monforte d’Alba di cui è titolare insieme al maître Fabio Mirici Cappa e che, a un solo anno dall’apertura, ha già conquistato la stella Michelin. «Un giorno in cui eravamo di riposo», spiega Laera, pugliese d’origine e ormai piemontese d’adozione, «con Fabio siamo andati a vedere questa struttura per la quale stavano cercando una gestione. Quando l’abbiamo vista non c’era niente: non la cucina e nemmeno le sale, ma con la nostra immaginazione l’abbiamo immediatamente arredata. Ora vedere che quella suggestione si sta realizzando è una gratificazione immensa. Ho avuto la fortuna di progettare la cucina a mia immagine, organizzando gli spazi in modo tale che fossero adeguati alle mie esigenze. Il prossimo passo sarà realizzare delle camere: è un continuo divenire, che si compie passo dopo passo, facendo tutto con testa e cuore».
Chef Laera la stella è arrivata subito… Era un obiettivo già a così stretto giro?
«Abbiamo iniziato l’avventura a Monforte d’Alba perché volevamo sviluppare un progetto nostro, creare un bel ristorante che ci corrispondesse. Poi, l’aspirazione alla stella c’è sempre. Un cuoco deve essere ambizioso, ma non può diventare un’ossessione».
Ci sono ossessioni che hanno senso nel suo lavoro?
«Per me la cosa più importante è vedere la gente felice a tavola; è per quello che ho deciso di fare lo chef».
Lei arrivava già da un ristorante stellato…
«Ho un ricordo bellissimo del percorso fatto alla “Rei” del Boscareto di Serralunga d’Alba; sono consapevole di quanto ho dato a quel ristorante e quanto quel luogo ha dato a me. Ma a un certo punto si sente l’esigenza di camminare con le proprie gambe e anche se c’è un po’ di timore nel lasciare un posto di lavoro sicuro, l’adrenalina di mettersi in gioco fino in fondo aiuta a superarlo».
È di aiuto anche il fatto che, pur essendo un “under 35”, abbia già una solida esperienza…
«È stato fondamentale lavorare con grandi maestri, tra i quali Antonino Cannavacciuolo, di cui sono stato anche il braccio destro. Quando ho cominciato a fare questo lavoro mi sono detto: “o lo faccio bene o non lo faccio proprio”. Questo è il mio approccio: ogni cosa in cui mi cimento, cerco di farla al 100 per cento delle mie possibilità. Ho frequentato anche due anni di liceo classico, ma non mi piaceva l’idea di non sapere cosa fare dopo».
Che cosa è per lei la cucina?
«Nella storia dell’uomo la cucina è sempre stata importantissima. La cucina non è solo mangiare. In questo momento ho con me due libri di cucina, ma che non sono di ricette. Spiegano piuttosto come si è evoluta la cultura di un territorio. Mi piace studiare sui libri, non bisogna limitarsi ad occuparsi di ciò che si mette nella padella. La chiave è lasciarsi incuriosire. Viaggiare mi è servito per ampliare la conoscenza gastronomica, ma anche per allargare gli orizzonti culturali. Capisci un territorio anche dal cibo che lo contraddistingue».
Lei è un chef da “uomo solo al comando”?
«Per noi il gruppo ha rappresentato sempre la parte fondamentale. Il campionato lo vince la squadra, in cucina e in sala. Il cuoco, al limite, è l’allenatore-giocatore».
Che obiettivo si dà dopo la stella?
«Il primo obiettivo è tornare a far star bene la gente, far provare loro un’esperienza unica. La stella è stata una bella botta di energia. Non vedo l’ora di mettere tutto questo entusiasmo in più al servizio della mia cucina».