Storia di corsia, colori tenui e luci basse, odore di medicine e disinfettanti, sonni agitati o imposti, veglie e di preghiere, speranze e dolore, ronzii di monitor e lamenti. Storia di sorrisi svelati dagli occhi, liberi tra mascherine e cuffie, a volte preziosi quanto le cure prestate, calme o affannose, sempre amorevoli. Storia di Olga, laureata in scienze infermieristiche, e di uno speciale ricamo del destino. Storia d’un cerchio chiuso e di un dono restituito. Storia scritta in ospedale ma non incastonata nell’emergenza Covid, utile per ricordare come l’eroismo risieda nella dedizione che è eguale in ogni necessità o patologia, perché gli angeli s’aggirano in tutti i reparti, ogni giorno, e le trincee di questi tempi li esaltano soltanto.
Olga non si occupa di malati di coronavirus, combatte il male del momento come tutti i colleghi e tutti i medici, ma lo fa all’occorrenza, ché la missione è un’altra. Delicata, tenera, impegnativa. Olga, infermiera professionale, lavora nella terapia intensiva neonatale del Policlinico riuniti di Foggia, dove esserini gracili s’aggrappano alla vita, minuscoli guerrieri protetti da vetri, attaccati a fili, trafitti da aghi. Sono venuti troppo presto al mondo, perciò da soli non ce la fanno, hanno bisogno d’aiuto e Olga lo regala, intrecciando professionalità e cuore, come chiunque faccia il suo mestiere e anche di più. Perché lei, in quel reparto, ha trascorso i primissimi mesi di vita, s’agitava in una delle cullette accanto a quelle dei fratellini gemelli, e oggi restituisce quanto ha avuto, orgogliosa e generosa, più forte della fatica, specchiata in quei batuffoli e negli occhi ansiosi di papà e mamme che sono gli stessi dei suoi genitori. Venticinque anni, sono passati, perché tornasse: la manina minuscola diventata mano che protegge.
L’incredibile è che Olga non ha costruito questo percorso dolce, anzi era destinata a un ospedale di Faenza, ma nello stesso giorno in cui doveva prendere servizio s’è materializzata la possibilità di Foggia, e accettarla è stato naturale: «Sono arrivata al punto di partenza: mi prenderò cura dei neonati insieme al dottore che si prese cura di me”. E che ha avvertito un’emozione grande, quando lei s’è presentata appena assunta, perché quel nome gli era rimasto dentro, e l’ha riportato a una notte lontana un quarto di secolo quando ancora non era responsabile del reparto, la notte in cui tre gemellini ebbero fretta di nascere e Olga, una delle due femminucce, pesava appena novecento grammi.
Anche alcune colleghe infermiere ricordano quella notte, e ricordano perfettamente lei che dei tre era la più vispa, e i tubicini nel naso che aiutavano il respiro aspettando che l’apparato completasse lo sviluppo, e le paure e la pazienza, la speranza e il sollievo, la gioia del momento in cui lasciò il reparto per andare a casa, finalmente. Olga era una bambina bisognosa di attenzioni speciali, come i bambini che oggi accudisce e cura, seguendo una vocazione, ubbidendo a una straordinaria coincidenza o forse assecondando un segno del destino. «Forse lo è», sospirano i colleghi, «di certo rappresenta un momento di gioia, un inno alla vita e un segnale di speranza in questo triste periodo di emergenza sanitaria».
La magia d’un cerchio chiuso
Olga, Infermiera professionale, appena laureata, si dedica ai bambini prematuri nel reparto di terapia intensiva neonatale che venticinque anni fa fu la sua prima casa: pesava appena 900 grammi. «Restituisco quello che ho avuto»