La struttura di cardiologia dell’ospedale “Santissima Annunziata” di Savigliano si fa carico di circa 700-800 coronarografie all’anno; effettua oltre mezzo migliaio di angioplastiche in dodici mesi, di cui 120-130 per infarto miocardico acuto. Secondo dopo il “Regina Margherita” di Torino per numero di cardiopatie congenite e pazienti “Guch” seguiti, il centro saviglianese ha dimostrato che l’incidenza di tali patologie è il 12 per mille, come si credeva, e non l’8 per mille, grazie a un team (con le dottoresse Antonia Bassignana e Sarah Dogliani) che segue tali pazienti da 28 anni. Una serie di dati che rendono più che lecito l’utilizzo di un termine spesso tirato in ballo con eccessiva facilità, ovvero “eccellenza”. Una definizione che il primario del reparto, Balda-ssarre Doronzo, evita di usare, per ragioni più che nobili: «Ritengo che l’eccellenza sia uno dei termini più abusati e spesso solo autoreferenziale, ma più ancora preferisco non usare il termine di eccellenza poiché mi piace pensare che si debba sempre migliorare per crescere. La nostra eccellenza, semmai, sta proprio nella crescita continua, nel trattare i pazienti nella maniera migliore. Un risultato di cui mi pregio è aver attivato, insieme alla coordinatrice infermieristica Cinzia Delpiano, un percorso di crescita motivazionale di medici e infermieri e, anche attraverso corsi di comunicazione, aver lavorato sull’accoglienza dei pazienti, presi in considerazione nel loro complesso e non solo in quanto persone con problemi cardiaci».
Dottor Doronzo, qual è stata l’evoluzione del suo reparto di cardiologia?
«Negli anni c’è stata una crescita importantissima della cardiologia, sia nei numeri che nella qualità dei servizi. A Savigliano abbiamo sviluppato àmbiti molto importanti, come quello della diagnosi e del trattamento dello scompenso cardiaco, seguito in particolar modo dai dottori Alberto Battisti e Livio Correndo, con un “follow up” che dura dal 2001 e che ha monitorizzato, nel territorio, per 20 anni una popolazione di 600 pazienti affetti da grave scompenso cardiaco; siamo gli unici nel nostro territorio ad avere questi numeri importanti. Un altro àmbito molto significativo è quello delle cardiopatie congenite. Grazie a questo lavoro abbiamo dimostrato che la prevalenza delle cardiopatie congenite non è dell’8 per mille come si riteneva, ma del 12 per mille e per questo siamo citati nella letteratura internazionale. Abbiamo iniziato nel 2007 ad eseguire coronarografie con la Tac, con una certificazione europea allo scopo. Siamo tra i pochi in Italia ad avere un team composto da cardiologo e radiologo e a oggi abbiamo eseguito più di 1.000 coronarografie con la Tac. Di tale percorso è responsabile il dottor Diego Pancaldo, con il quale tre anni fa si è iniziato a eseguire anche la risonanza magnetica cardiaca. Si sono creati ambulatori specifici per le aritmie, con percorsi certificati che sono durati anni. Adesso siamo arrivati a una “potenza di fuoco” di 1.200 ricoveri l’anno in cardiologia: sono numeri da grande ospedale. Abbiamo creato una rete territoriale con il 118, ma anche con i medici di base per le patologie croniche».
State portate avanti anche qualche iniziativa particolare?
«Da un anno circa abbiamo iniziato un percorso che si articola nel progetto più generale dell’ “Ospedale senza dolore” che utilizza tecniche di rilassamento ipnotiche a scopo analgesico. Un grazie particolare va al dottor Marco Scaglione, primario di cardiologia dell’ospedale di Asti, che è il promotore in Piemonte di tale tecnica. Non ipnotizziamo i pazienti in senso classico, ma li rendiamo meno sensibili al dolore, perché durante l’intervento il paziente è più sereno e ne serberà un ricordo migliore».
Si può dire che il profilo del paziente cardiopatico sia cambiato nel corso degli anni?
«Sì, perché sono pazienti che vivono di più e sempre più spesso multipatologici, per questo abbiamo creato percorsi multispecialistici; chi viene da noi spesso ha anche bisogno di fare dialisi, necessita dell’urologo, del diabetologo. Superato il problema cardiaco non riteniamo esaurito il nostro compito. Creiamo un percorso per far sì che le esigenze del paziente trovino risposta sul territorio».
Fare il cardiologo al tempo del Covid che difficoltà presenta?
«Quando si è dovuto inviare medici ai reparti Covid si è attinto maggiormente al personale delle strutture che vivono di programmabilità quali gli oculisti, i diabetologi, i chirurghi generali, gli urologi. Come cardiologia, da questo punto di vista, abbiamo risentito meno di altri, perché viviamo di emergenza, dato che ricoveriamo l’80% dei nostri pazienti dal pronto soccorso. Ciononostante abbiamo dato il nostro contributo turnando con gli altri nei reparti Covid e questo è importante poiché molti dei pazienti sono ottantenni e anche cardiopatici, per cui avere un cardiologo significa garantire, in un momento di assoluta gravità, anche quel tipo di supporto».
E per i vostri pazienti?
«In ospedale sono stati predisposti “percorsi puliti” e “percorsi sporchi”. I pazienti che vengono da noi possono farlo in massima sicurezza e anche per le visite ambulatoriali abbiamo sempre erogato le prestazioni cardiologiche urgenti, di classe B (da effettuasi entro 10 giorni) e le visite di controllo in pazienti affetti da importanti patologie».