«Mettiamo l’Italia attorno a un tavolo»

Pancani: «Futuro da pianificare» «Dal Covid una lezione: per i politici è il momento di impostare nuovi assetti partendo dalla sanità»

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Tra economia, politica e, ultimamente, sanità: il salotto televisivo di Andrea Pancani ogni mattina è un’occasione per fa­re il punto della situazione sulla realtà che viviamo.

Pancani, dall’osservatorio privilegiato di “Coffee Break” come vede gli ospiti della politica in questa fase complicatissima? Più spaventati o consapevoli?
«Non direi spaventati, o forse lo mascherano bene. Cercano di mo­strare consapevolezza delle difficoltà. Diciamo che dobbiamo distinguere tra maggioranza e opposizione. Tra i politici di quest’ultima, in generale, si ripete il ritornello del “non siamo stati ascoltati” e si evidenzia il bisogno di condividere idee utili a uscire dalla crisi. C’è da dire che si tratta di un atteggiamento critico ma non gridato. Per quanto riguarda la maggioranza, il messaggio che arriva è quello di una difesa a oltranza di tutti i provvedimenti messi in campo. Nessuno però riconosce mai gli errori commessi. E questo, in realtà, risulta ab­ba­stanza insopportabile».

Possiamo immaginare, con queste premesse, una reale ripartenza del sistema Italia dopo la crisi da Covid?
«Questa crisi non ci è caduta addosso all’improvviso. Il Covid ha amplificato certi aspetti, ma l’allarme era suonato molto tempo prima. Il problema è che in Italia non si pianifica mai nulla. Anche adesso, con i soldi in arrivo o già arrivati dall’Europa, si intuisce che le spese finiranno come sempre in mille rivoli. Eppure, sappiamo quali siano le priorità, dalla banda ultralarga alle infrastrutture, dagli “hub” alle aree di interscambio. Però tra il dire e il… fare con quello che c’è, tutto diventa complicato».

Che cosa ci vorrebbe per avviare un cambiamento?
«Un po’ di coraggio politico. Ci sono tante “lobbies” e tanti settori che reclamano, giustamente, interessi di parte. Però, quando arriva il momento di fare una scelta, non si può accontentare tutti. Abbiamo visto ora una ipotetica suddivisione del “Re­co­very fund” e quei 9 miliardi destinati alla sanità, dopo tutto ciò che abbiamo vissuto, sembrano davvero una misura insufficiente a fronte di investimenti maggiori in altre questioni».

C’è da preoccuparsi? Sarà l’ennesima occasione persa?
«Rischia di esserlo. Un altro difetto di questo Paese è non riuscire mai a mettere tutte le forze politiche, ma anche i privati, at­torno a un tavolo, dove al centro ci sia il bene comune dell’Italia. Ci si ferma sempre agli interessi di bottega, invece bisognerebbe creare un’alleanza. Basterebbe un po’ di coraggio».

Fotografare l’esatta realtà non è facile. I dati che vengono diffusi sono contrastanti, forse inaffidabili. È d’accordo?
«Senza voler minimizzare i numeri del Covid, non si è mai capito se le vittime siano state considerate per effetto del virus o con il virus. Ed è qualcosa di insopportabile, perché se ogni an­no ci sono nu­meri che te­stimoniano la diffusione di tante ma­lattie, sarà istruttivo capire, quando tutto questo sarà finito, che cosa è accaduto. Perché oggi tante visite, per altre patologie, sono bloccate. E allora i numeri sono utili ma non se hanno un effetto ansiogeno, se non ci dicono esattamente che cosa succede».

La confusione riguarda i numeri del contagio ma anche altre cifre, non trova?
«Sì, anche per le assunzioni di nuovi medici, per esempio, è stata fatta confusione: prima c’era emergenza, poi non più, poi di nuovo».

Le misure attuate in Italia sono state adeguate?
«Questa pandemia, almeno in Europa, ci ha messi tutti un po’ sullo stesso piano. Nel rispetto delle regole, gli italiani non sono stati meno scrupolosi dei francesi, per dire. In questo senso la globalizzazione ha smussato le diversità. Poi però la Germania, forte di un’organizzazione più solida, ha limitato i danni rispetto a noi, pur con una popolazione anziana numerosa quanto la no­stra. Si è capito, si è visto, che c’è molto da fare sul territorio per continuare a garantire a tut­ti lo stesso livello di cura e per salvaguardare il nostro si­stema sanitario, che resta uno dei migliori al mondo».

Sarà davvero il vaccino il lasciapassare per la normalità?
«Forse quando avremo raggiunto la fatidica “immunità di gregge” ci riapproprieremo delle nostre vite, ma comunque dopo un anno di mascherina, un marchio questo virus lo lascerà comunque. Spero che avrà effetti positivi. Magari avremo in eredità una maggiore abitudine alla cura dell’igiene. Per recuperare gli abbracci ci vorrà tempo, forse. Ma sarà importante. Credo che, alla fine, torneremo alla vita di prima».

E per quanto riguarda il sistema in cui viviamo, il virus ci costringerà a cambiarlo?

«Son un po’ scettico, ma mi auguro che per esempio i medici di base e tutte le componenti della sanità, si mettano attorno a un tavolo per ripensare tanti dettagli, altrimenti ci ritroveremo daccapo. Se davvero questa pandemia dovrà darci una lezione forte, bisognerà far capire a chi gestisce il sistema che bisogna davvero cambiare paradigma».

E l’informazione, con l’epidemia, è stata all’altezza del suo compito?
«Dovremmo capire quanto sia importante approfondire, formarsi in temi come l’economia o la sanità, altrimenti si cade nel chiacchiericcio. Basta superficialità: questa è la nuova sfida».