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«Chef, mettete le nonne nelle vostre cucine»

Federico Ferrero e l’enogastronomia «Sono stufo di sentirmi spiegare cosa sto per mangiare, voglio scoprirlo da solo. Anzi, di più, non voglio proprio saperlo»

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Laureato in medicina e chirurgia con lode, scrittore, giornalista, docente, Federico Fran­­cesco Ferrero ha bucato gli schermi vincendo nel 2014 l’ambito “contest” culinario MasterChef. Ha recentemente fondato il Co­mi­tato promotore “Torino-Pie­mon­te world food capital”, di cui è presidente, con lo scopo di promuovere un futuro economico legato al “food” che vada oltre al ristorante, ma abbracci i molteplici attori coinvolti nel sistema-cibo, dall’industria fino alla ricerca scientifica. Ama la cucina, i cavalli, l’Egeo. E gli gnocchi crudi della nonna.

Quest’anno orribile per la ristorazione sta volgendo al termine. Che cosa ha imparato la ri­sto­razione da questa esperienza?
«I ristoratori hanno da sempre la capacità di reagire velocemente alle richieste del pubblico. In questa emergenza hanno fatto l’impossibile per creare per i loro clienti un simulacro di normalità servendo piatti salati a colazione, prolungando l’apertura, eliminando in alcuni casi il giorno di chiusura e migliorando la loro proposta di asporto. Ma la vera domanda da porsi è: che cosa hanno im­parato i clienti? Hanno capito cosa vuol dire fare la spesa al mercato e scegliere le materie prime con cura? Sa­ran­no in gra­do ora di richiedere la stagionalità del cibo che gusteranno invece che un piatto da In­stagram?».

E la cucina delle Langhe, nello specifico, come è messa?

«Nelle Langhe ci sono chef di caratura incommensurabile, l’im­­menso Enrico Crippa prima di tutti. Troppo spesso però i menù proposti si assomigliano tutti: “tajarin” con il tartufo, vitello tonnato, carne battuta al coltello. Spesso la carne. Ma se si legge Pavese o Fenoglio si parla di tutt’altri piatti, dove l’ingrediente principale erano le verdure dell’orto, cucinate in zuppe, mi­nestre, frittate. Ora provi a trovare una frittata in un menù delle Langhe! La colpa non è degli chef, ma dei clienti».

Il cliente dovrebbe usare meglio il suo potere di influenzare il menù di un ristorante?
«Sì. I grandi chef del passato non erano artisti, la cucina è un’arte applicata. Nei castelli prima e nelle case della borghesia poi, i padroni erano soliti apportare piccole correzioni, intervenire sulle ricette: il cuoco preparava quello che la committenza desiderava mangiare. Più di recente il grande luogo di incontro tra cucina e clienti erano le piole, dove si servivano piatti semplici, di conforto, accompagnati da vini senza troppi fronzoli. Queste osterie si trovavano spesso nei crocevia, dove ci si fermava per scaldarsi, dove c’era sempre una zuppa che bolliva sul “potagé”. Ora per trovare questo ge­nere di atmosfera, dove si gio­ca ancora a carte mentre qualcun’altro mangia o beve un bicchiere al banco, bisogna ab­bandonare le Langhe più battute e salire in alta Langa».

Ha una nostalgia canaglia della piola, quindi.
«Ho nostalgia dell’atmosfera di quei luoghi dove il cibo aveva un legame viscerale con la propria storia, dove si cucinava quello che si trovava al mercato. Ora la materia prima viene spesso comprata freschissima ma poi abbattuta e rigenerata al bisogno. La guancia a bassa temperatura, ad esempio, andrebbe cancellata da menù a favore dell’arrosto servito dopo ore di cottura lenta. Il grande chef Cesare Giaccone di Alba­retto Torre metteva il capretto sullo spiedo e aspettava. Quando era pronto lo serviva a tutti. Questa è la cucina che dovremmo ritrovare, quella dell’autenticità. Degli zucchini in carpione pescati direttamente dal “grilet” o della insalata russa pescata a cucchiaiate dal piatto di portata. Non si tratta di una nostalgia passatista, ma di tornare alla cucina della sostanza. Il mondo guarda all’Italia come riferimento culinario, abbiamo un grande re­sponsabilità nei prossimi anni».

Nei suoi post ha parlato di qualcosa che rasenta l’eresia: il tartufo bianco cotto. È sicuro?
«Sì. Ci siamo assuefatti a gustarlo nei soliti pochi abbinamenti, come la pasta fresca. Un tempo, a casa, gli accostamenti erano più audaci: sulla fonduta, sulla bagna caöda, sulle acciughe. Nei grandi libri di cucina francese raccontano del tartufo bianco inserito metà durante la cottura e metà lamellato crudo, prima del servizio. Bisogna leggere e studiare, altrimenti ri­schiamo di raccontare una tradizione che non conosciamo».

Qual è questa tradizione che conosciamo, invece?

«Quella degli zucchini in carpione delle nonne che per molti di noi hanno l’effetto della madeleine di Proust, che venivano gustati come piatto unico e ora solo a evocarli ricreano un mondo. La tradizione vera parla di vite non facili, del dopoguerra, di nonne, come la mia, che a dodici anni sono andate a lavorare a servizio nelle case della borghesia torinese. A quella cucina bisogna tornare, senza orpelli e senza ansia da alleggerimento. Se vogliamo essere fedeli, me­glio servire la carne cruda color grigio topo, cotta dal limone, e abbandonare queste artificiose battute al coltello, prive di legami veri con la storia».

Il ritorno al passato è l’unica strada percorribile?

«Ci sono due vie: osare riproporre la verità, studiare anche i gran­di testi di cucina del passato, capire la storia e proporre qualcosa di autentico. Oppure virare decisamente verso l’innovazione. Sa qual è il mio sogno?».

No, ma ho davvero la curiosità di saperlo…
«Sedermi al ristorante, chiedere quali sono le verdure del giorno e ascoltare un elenco fitto fitto di proposte appena uscite dagli orti della zona. Al­cuni chef, come il pluristellato Crippa, sono tornati a fare l’orto, attività lodevolissima. Ma la vera rivoluzione sarebbe premiare i contadini per la loro professione e incentivare il dialogo tra loro e i cuochi».

Un altro suo sogno, dichiarato più volte, è che non si faccia un uso smodato della parola “gourmet”. Altri termini abusati?
«L’espressione “a bassa temperatura” e le “acciughe del Can­ta­bri­co”. Ci raccontiamo da decenni la favola della “via del sale”, dello strepitoso incontro tra ac­ciughe e verdure e aglio che ha creato quella sinfonia di sapore che è la bagna caöda, abbiamo la Li­guria a due passi e poi nei me­nù trovo sempre queste “acciughe del Canta­brico”. Bisogna tor­nare alla cu­cina reale, della solidità».

Se pensa a quel tipo di cucina, qual è il primo gusto della sua vita che ricorda?

«Gli gnocchi di mia nonna, disposti sull’asse di legno, so­pra al tavolo di marmo. Li prendevo e li mangiavo ancora crudi. Quando tornavo da scuola, mia nonna ci chiedeva se preferissimo “tajarin” o gnocchi, impastava un po’ e dopo mez­z’ora era pronta per servirceli. Questo mi fa domandare: se lei faceva tutto ciò, come è possibile che oggi non si riesca a trovare nei ristoranti quella cucina “espressa”?».

Il “lo­ck­down” ci ha insegnato qualcosa in cucina?

«La famiglia vissuta intensamente in questo periodo, con i suoi tempi lenti, ci ha riportato al senso vero della ristorazione ovvero soddisfare il desiderio della clientela».

Non è già così?
«Sì, però il ristorante deve sempre più essere un luogo dove il cliente avanza senza timore le sue richieste per orientare il cuoco, come Giulio II con Mi­chelangelo, come noi bambini con la pasta di mia nonna. Da qui l’invito necessario: “Chef, mettete le nonne nelle vostre cucine!”. Solo questo potrebbe ridare calore a una ristorazione dove la perfezione tecnica ri­schia di sconfinare nella freddezza. Le nonne di un tempo stanno scomparendo, affrettiamoci ad ascoltarle».

E a lei che le ha ascoltate cosa han­no raccontato?
«Due secoli fa i miei bisnonni gestivano un’osteria a Pam­pa­rato, accanto a un cambio per i cavalli. Lì arrivavano formaggi forestieri, prede appena cacciate e notizie fresche, la tavola era un luogo di scambio di conoscenza, dove ognuno imparava dagli al­tri. A quei tavoli uno scrittore im­menso come Cesare Pavese si sedeva per tradurre mentre altri buttavano le carte sul tavolo».

C’è di nuovo aria di “amarcord” nelle sue parole…

«Mi piacerebbe si tornasse alla complicità delle osterie autentiche, non in nome di una passatistica nostalgia, ma del dolore che abbiamo vissuto in questi mesi per la mancanza di contatto con gli altri. Vorrei che ci trovassimo a tavola per incontrarci, non per scattare foto da In­sta­gram. Sogno cene senza troppe regole e seriosità, un’e­spe­rienza del cibo lontana da qualsiasi misticismo, riportata al calore della convivialità. Accan­to ai grandi vini vorrei schietti Nebbioli, Grignolini e Dolcetti».

C’è qualcosa di cui si è stufato?

«Sono stanco di sentirmi spiegare cosa sto per mangiare, voglio scoprirlo da solo. Anzi, di più, non voglio proprio saperlo. Si immagini se prima di fare l’a­more, qualcuno le raccontasse per filo e per segno tutto quello che sta per succedere! Co­sì è per il cibo. Che lo chef si tenga i suoi segreti e lasci a me lo stupore del non scoprirli mai».