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«Comportarsi da comunità fa la differenza»

Il fondatore di Slow Food Carlo Petrini ribadisce come la ripartenza sarà possibile solo con un nuovo spirito di collaborazione

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Nella stragrande maggioranza dei casi, chi parla lo fa per se stesso; poi c’è un numero esiguo di persone che è legittimato a parlare in nome di chi la pensa come lui. Carlo (per molti, “Carlin”) Pe­trini appartiene a una terza categoria, ancora meno nutrita: quella di chi è in grado di ispirare azioni con le proprie parole .
Non a caso il braidese è stato l’unico italiano inserito nel gennaio 2008 dal quotidiano in­glese “Guardian” tra le 50 persone che “potrebbero salvare il pianeta”. Nel 1989 a Bra ha dato vita a Slow Food, movimento internazionale impegnato a ridare il giusto valore al cibo, nel rispetto di chi produce, in armonia con ambiente ed ecosistemi, grazie ai saperi di cui sono custodi territori e tradizioni locali. Ideatore di manifestazioni quali Cheese, Salone del Gusto e Terra Madre, Petrini è tra gli artefici dell’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo, di cui è presidente.

È uno, insomma, a cui a buon titolo si può chiedere dove sta andando il mondo e dove sarebbe opportuno che andasse. Per poi, magari, attivarsi di conseguenza.

Petrini, per alcuni la crisi sanitaria servirà a far capire l’importanza di affrontare l’emergenza climatica, per altri la priorità post pandemia dovrà essere per l’economia e la tenuta sociale. Lei che posizione ha a riguardo?

«Io sostengo fortemente che queste tre crisi, pandemica, economica ed ecologica, siano strettamente collegate. Non c’è più tempo per pensare e agire per compartimenti stagni. L’au­spicio di molti, me compreso, è che questo mo­mento delicato del­­la nostra storia, pos­sa veramen­te farci capire l’importanza degli atteggiamenti di comunità. Credo che il grande insegnamento del­la pandemia sia proprio questo».

Ovvero?
Gli effetti delle nostre azioni possono avere ricadute sulla libertà altrui, e in questo caso, anche sulla salute del­le altre persone. Dobbiamo quin­di allargare il nostro orizzonte di pensiero, preoccuparci per la natura e per le prossime generazioni dei nostri figli e nipoti perché tutto è connesso. Speriamo che questo motto diventi la cifra delle azioni individuali e politiche del nostro futuro».

A proposito di motti, uno di quelli che ha accompagnato l’inizio della pandemia è stato “andrà tutto bene”; poi si è diffusa l’idea “ne usciremo migliori”. La prima affermazione mi sembra screditata dai fatti. Sulla seconda che opinione ha?

«Solo il tempo saprà dircelo. La riflessione che però mi sento di fare è questa: le immagini di assembramenti alla televisione, i proclami populisti della politica che ci scandalizzano e che non fanno sperare bene, non sono l’unica variabile esplicativa di questo momento. Dobbiamo tener conto di una parte della popolazione (se non la maggioranza, una buona parte), che è silente e attenta, che non sente il dovere di condividere ogni stato d’animo sui “social network”, e che rispetta le regole con spirito di sacrificio, ma per un benessere comune. A priori non mi sento di dare un giudizio sul “migliori o peggiori”, sono però convinto che questo momento stia causando situazione di grande debolezza mentale e sociale, e non tutti se ne dimenticheranno».

Alcuni ritenevano che le limitazioni imposte potessero favorire il modello di commercio dei piccoli produttori locali, invece a beneficiarne è stata so­prattutto la Gdo e l’e-commerce. Un’oc­casione persa?
«L’affermarsi dell’e-commerce e il concentrarsi degli acquisti nel canale della Gdo hanno senz’altro avuto un impatto negativo sulle piccole realtà. In un momento in cui siamo ancora soggetti a restrizioni negli spostamenti, il nostro margine d’azione è però limitato. Una volta che sarà terminata l’emergenza sanitaria dovremo attivarci per invertire questo trend e supportare le botteghe di quartiere, gli artigiani e i contadini. È tempo di dare spazio all’economia di relazione che non ha come unico parametro il profitto a tutti i costi».

Che cosa potrà favorire questo passaggio?
«La voglia di sentirsi parte di una comunità, di rinsaldare relazioni umane. Gli attori lo­cali sono infatti gli unici in grado di fornire questo tipo di esperienza. Siamo ancora in tempo per non farci scappare la preziosa opportunità di riconoscere il valore di quelle realtà che nonostante tutto, continueranno a essere fonte di resilienza per i piccoli comuni e per tutte le persone che non hanno i mezzi per accedere ai servizi dell’e-commerce».

Qual è la cosa a cui ha rinunciato con più difficoltà a causa della pandemia?
«Più che sacrificio, mi ha reso molto triste vedere il nostro campus di Pollenzo vuoto: gli studenti mi hanno sempre dato molta energia e felicità. Inoltre, chi mi conosce, sa che sono molto legato alle realtà internazionali del nostro movimento, cerco sempre di fare qualche viaggio per visitarle, per rimanere in contatto e continuare ad imparare. Dovervi rinunciare non è stato facile, ma so che arriveranno tempi migliori in cui torneremo a stare insieme, condividendo anche la gioia di stare a tavola».

In linea di massima, si può dire che più il “lockdown” lo si è vissuto risiedendo in terre marginali e più è stato tollerabile. Servirà da lezione
?
«Credo sinceramente che sarà di lezione a molti. Se ci pensiamo bene, è esemplificativo come nel contesto globalizzato e moderno del 2020 ci si è accorti del valore e della fortuna di poter fare una passeggiata nel bosco, poter respirare aria pulita e godere della natura. Siamo immersi in un mondo pieno di servizi e prodotti tecnologici, applicazioni del cellulare in grado di soddisfare i più diversi bisogni e desideri, che ci hanno fatto dimenticare l’importanza di una vita in armonia con la natura. La società ha bisogno di ripensare a un modello di sviluppo che sia davvero integrale. Un sistema capace di creare un forte legame sinergico con le cosiddette aree marginali: montagne, piccoli centri abitati o le stesse periferie di una grande città».

Quale categoria guiderà la ri­scos­sa post Covid?
«Personalmente credo che la ripartenza potrà essere tale solo se non ci sarà una categoria che dominerà sulle altre. È il tempo della collaborazione, di camminare tutti insieme nella stessa direzione perseguendo un fine comune: il benessere delle collettività».

Come vede la Granda ai nastri di (ri)partenza?

«Anche in passato, in tempi di difficoltà gli abitanti della Gran­da hanno saputo dare prova della loro tenacia e della lora ca­pacità di saper superare le difficoltà, avvalendosi di quello spirito creativo ed imprenditoriale che li contraddistingue. Sono fiducioso che questo spirito ci ac­compagnerà anche questa volta».

Uno dei messaggi che Slow food manda con più forza e frequenza è “ripartiamo dalla terra”. Cosa significa concretamente?

«Il messaggio “ripartiamo dalla terra” ci porta a riflettere sulle nostre azioni come singoli individui facenti parte di una comunità, e su come questi gesti possano essere promotori di un cambiamento. Cambiamento alla cui base vi è una nuova umanità che si prende cura dei territori che abita, che valorizza i saperi tradizionali delle comunità e che trova ristoro nel piacere della condivisione. Per dare concretezza a questo messaggio dobbiamo schierarci dalla parte di quei cuochi, contadini, pescatori e pastori virtuosi che ne sono i primi promotori».