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«Il mio vero talento? Sono un pianificatore»

Bruno Gambarotta è uno dei volti piemontesi più noti tra quelli che hanno fatto la storia della Rai. A 83 anni fa progetti e parla... con Alexa

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“Non ho capito, aspetti un attimo”. Al che, voltandosi indietro, intima: “Alexa stop”. Una scena abituale ai tempi dell’as­sistenza vocale di Ama­zon, ma che, anche per uno stupido pregiudizio anagrafico, uno non immagina possa avere come protagonista Bruno Gam­ba­rotta, 83 anni e mezzo, tra i piemontesi che hanno fatto la storia della tv e della radio italiana. Un pregiudizio quanto mai infondato, perché basta un’occhiata al “curriculum” di Gam­barotta per capire che nella sua vita professionale ha fatto “di tutto e di più”, come recitava un celebre claim di “Mamma Rai”, casa sua dal 1962 in avanti (prima da dipendente poi come collaboratore esterno).

Se gli si fanno notare le sue tante carriere in una carriera, da buon piemontese, Gam­barotta sminuisce. «Direi che è stato un gioco di circostanze. Io sono sempre stato al riparo di un lavoro sicuro, sono uno da “27 del mese”. Avevo questa famiglia piccolo borghese, mio padre operaio tipografo compositore, mia madre pettinatrice. Ho preso un diploma da perito fo­tografo, poi ho lavorato in tipografia fino a 25 anni, quindi ho vinto il concorso in Rai per cameraman e sono rimasto lì».

Rimasto lì in senso figurato…
«Dopo tre anni, la Rai ha organizzato un concorso per programmisti aperto anche ai dipendenti. Serviva la laurea e io non ce l’avevo, però nel frattempo mi ero occupato di attività culturali di vario tipo: a­vevo fondato un cineclub e una rivista di cinema, collaboravo con il Centro Gobetti… Ho portato tutta questa documentazione e mi hanno accettato all’esame. Da lì si è aperta una nuova strada. Dopo l’esame mi hanno trasferito a Roma e sono subito andato in direzione programmi, per un altro colpo di fortuna. In sei mesi sono passato da fare il “cameraman” in un centro di produzione di Torino alla stanza dei bottoni. Ero nel cuore della più grande industria culturale italiana. Ho a­vuto modo di conoscere e frequentare personaggi di primo livello registi di cinema, scrittori… Ho seguito il primo film te­levisivo di Bernardo Bertoluc­ci, per me è stato un momento di grande soddisfazione».

Quindi cinema e tv andavano d’amore e d’accordo…
«Tutt’altro. Fu la crisi del cinema a cambiare le carte in tavola. Quei registi che prima snobbavano la tv e la consideravano un prodotto di serie B, una roba da servi, nel giro di pochi mesi hanno iniziato a collaborare, perché avevano bisogno di lavo­rare. E io tenevo i contatti con loro. Di alcuni sono anche diventato amico. Ho perfino iniziato a collaborare a sceneggiature di film per la tv. Poi sono tornato a Torino».

Fu una scelta dettata dal cuore?
«Mia moglie, di otto anni più giovane di me, si è laureata in lettere e ha fatto il corso abilitante, Poi abbiamo avuto tre figli, uno dietro all’altro. C’era una forte divaricazione: lei era a casa per badare ai bambini e io ero in piena attività. Magari stavo in Rai sino alle 5 del pomeriggio poi avevo appuntamento con Pietro Germi, Luigi Comencini, Nanni Loy. Andavo a casa loro, cenavo con loro e poi a lavorare sino alle ore piccole. Quindi rientravo e, eccitatissimo, facevo i miei racconti a casa. Mi sono reso conto che anche lei aveva bisogno e diritto alla sua realizzazione. A Torino avevamo tutto, soprattutto quella rete familiare che in Italia è l’unica che regge. In Piemonte, inoltre, era in buona posizione per un incarico da insegnante, mentre a Roma sarebbe stata in una coda molto lunga. Così quando a Torino si è liberato un posto da funzionario mi sono trasferito. Dai 28 ai 40 anni sono stato a Roma poi a Torino, dove ho iniziato facendo il produttore di programma. A 50 anni mi hanno chiamato da Roma e mi hanno detto: “Siamo alle prese con Celentano, non sappiamo come fare a gestirlo”…».

Anche quello fu un colpo di fortuna?

«Diciamo che se mi devo riconoscere un talento, è quello dell’organizzazione. Io sono un pianificatore. Ho pianificato e organizzato programmi televisivi complicatissimi, in cui bisognava badare ai contratti per i ballerini, per gli attori, per i figuranti, per le comparse. Anche con Celentano mi è servita questa abilità, per esempio quando ho dovuto ges­tire un coro di bambini… La parte organizzativa sembra secondaria ma provi a immaginare di uscire con una troupe di un centinaio di persone per riprese esterne, arriva sul posto e si accorge di non aver chiesto il permesso di occupazione di suolo pubblico. Si trova con 100 persone che non sa come utilizzare! La produzione è affascinante perché basta una piccola défaillance e crolla tutto. Per me è stato esaltante occuparmene».

Ha lavorato e conosciuto tanti grandi della tv e della cultura. An­­che George Simenon, di cui è tra i massimi conoscitori italiani. Di lui ha detto che è un narratore e non scrittore. In che senso?
«Un narratore è uno che vuole raccontare una storia, non far vedere che scrive bene. In un’intervista, tra le altre cose, Si­menon disse che in rilettura non cambiava mai la trama, ma interveniva cancellando. Se a­veva messo due aggettivi ne la­sciava uno. Diceva: “Se trovo una bella frase la cancello”. Uno scrittore, se gli viene di scrivere una bella frase la la­scia, perché dimostra che sa scrivere bene, ma se uno vuole raccontare non ha bisogno di scrivere bene… Un narratore mette in scena solo quello che serve, va diritto allo scopo, come Conrad, come Tolstoj».

O, per rimanere ad Asti, come il suo amico Giorgio Faletti…
«Esatto. Lui è uno che voleva raccontare storie e ci riusciva be­nissimo, anche se non mi sarei mai aspettato un romanzo come “Io uccido”».

A proposito di amicizia, che ruolo ha avuto nella sua vita?
«Molto grande. Ho conservato amicizie dai tempi delle medie e ho mai litigato con un amico, sarà anche perché non sono un tipo combattivo. Inoltre, le amicizie le ho mai sfruttate per secondi fini, e questo mi piace molto».

Anche la scrittura pare piacerle molto…
«Quando scrivo mi piace galleggiare in superficie dei grandi temi. Il mio modello, se vogliamo, è il Calvino favolista, quello de “Il Barone rampante” o il Voltaire del “Candido”; uno, cioè, che si diverte senza calarsi mai in profondità. Le presentazioni dei libri, poi, sono il mio forte: di “Ero io su quel ponte” ne ho fatte più di 100. Vado in giro e sono contento: le persone si comprano il libro e se lo fanno dedicare e io scambio volentieri qualche parola con loro»

Le piace l’accoglienza che le riservano?

«Mi gratifica molto, specie quando ci sono incontri con gruppi di lettura. Poi, certo, qualche volta qualcuno mi chiede ancora di parlare di Celentano…».