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«Più vittime se il lockdown scatta in ritardo»

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Prima della crisi da Covid, il sociologo Luca Ricolfi, docente di analisi dei dati, pre­sidente e responsabile scien­­tifico della Fondazione Da­­­­­vid Hume, aveva pubblicato “La società signorile di massa”, libro di successo nel quale analizzava il paradosso di un’Italia dove il numero dei cittadini senza lavoro aveva ampiamente superato quello dei lavoratori, dove si stava esasperando l’accesso a consumi opulenti con l’economia in stagnazione e la produttività ferma da vent’anni. Bene, anzi male: poco dopo è arrivata l’emergenza sanitaria.

Professor Ricolfi, la “Società signorile di massa” sopravviverà agli effetti del Covid?
«No, il nostro tenore di vita di­minuirà sensibilmente, è probabile che le persone che pos­so­no condurre una vita relativamente agiata (attualmente il 60-70% della popolazione) cessino di essere la maggioranza della po­polazione. Una maggioranza che un po’ vivrà di lavoro mal pagato, un po’ vivrà di sussidi pubblici, un po’ vivrà della benevolenza e del­la carità private».

Ma se in qualche modo questa crisi accentuasse la necessità di un cambio di paradigma, quali sarebbero i nuovi modelli? La Cina e i Paesi asiatici?
«No, credo che siano modelli troppo lontani. Mi pare più realistico ispirarci ai Paesi europei del Nord, come l’Irlanda per quanto riguarda le regole economiche e i Paesi scandinavi per quanto riguarda lo stile di vita. Però tendo a pensare che non accadrà, cercheremo disperatamente di restare come pri­ma, senza peraltro riuscirci».

Lei ha detto che Conte sta trasformando l’Italia in una società parassita di massa: per quale motivo nel resto d’Europa ci sono state politiche più efficaci per l’emergenza?
«Perché nessuna, tranne la Gre­cia, ha un rapporto debito/Pil alto come quello dell’Italia. E se hai un debito così, puoi anche, forse, permetterti di dilapidare 100 miliardi grazie all’extra-deficit (eufemisticamente ribattezzato “scostamento di bilancio”), ma non ne puoi spendere 200 o 300 co­me hanno fatto Paesi come la Germania: i mercati ci punirebbero immediatamente, precipitandoci in una crisi peggiore di quella del 2011».

Veniamo al virus: pensa che un “lockdown” più lungo, senza ripensamenti, sarebbe stato più accettato dalle persone, oltre che più efficace?
«Sinceramente non lo so, ma ten­do a pensare di sì. Quello che alla gente risulta insopportabile è questo continuo tergiversare, alla ricerca di regole che sono esclusivamente il frutto di compromessi fra le esi­genze politiche dei partiti e delle rispettive correnti, anziché essere il risultato di un dibattito scientifico aperto e trasparente».

Ma perché in Italia stiamo subendo questa seconda ondata se nel complesso sono state ri­spettate le misure (mascherine e distanziamento) esattamente come in altri Paesi che ora han­no numeri decisamente inferiori di vittime?

«In realtà il rispetto delle regole non è stato sufficiente per evitare la seconda ondata. Occorre anche che lo Stato faccia tutto il resto: tamponi di massa, “contact tracing” efficiente, rafforzamento del trasporto pubblico, giusto per menzionare tre delle dieci cose che il nostro Go­ver­no non ha fatto (le trova esposte in una petizione che ha ricevuto 40 mila firme). Poi c’è un’altra cosa da dire. La seconda ondata era evitabilissima solo se avessimo fatto tutto quel che occorreva fare. E, in­fatti, fra i 24 Paesi a noi più comparabili (ossia avanzati, democratici, con istituzioni di tipo occidentale) ben dieci non hanno avuto la seconda ondata».

Quali sono?
«Sei sono in Asia (come Giap­pone e Corea) o nell’emisfero Boreale (Australia, Nuova Ze­landa), ma quattro sono in Europa: Irlanda, Norvegia, Fin­landia, Danimarca».

A proposito di numeri: quelli che sono stati comunicati fin qui sono credibili? Oppure c’è stata poca chiarezza sui morti “per” o “con” il Covid?
«Il numero di morti è la statistica che meglio permette comparazioni internazionali, tuttavia non è priva di problemi. In Ita­lia, almeno nella prima fase, ci sono almeno 15-20 mila morti dimenticati dai bollettini ufficiali (Protezione civile e Istituto superiore di sanità), ma scoperti mediante l’analisi statistica. In altri Paesi, come il Belgio, sembra sia successo il contrario: hanno classificato come morti Covid anche persone decedute per altre cause. Non si può escludere che, ove si tenesse conto di questi due fattori di di­storsione, l’Italia sarebbe la prima (anziché la seconda) nazione per nu­mero di morti per abitante».

Il Governo ha fatto spesso riferimento ai modelli matematici come fondamento delle decisioni attuate: sono stati disattesi op­pure, se messi in pratica, si sono rivelati inefficaci?

«L’unico modello che hanno usa­to, che io sappia, è quello ne­cessario per calcolare il tasso di contagiosità “Rt”, un calcolo che per lungo tempo è stato ap­paltato alla Fondazione Bruno Kessler. Quello delle zone gialle/arancio/rosse non è un mo­dello matematico, ma un algoritmo “opaco” e mai completamente esplicitato. La mia im­pres­sione è che nessuno o qua­si nessuno degli esperti cooptati dal Governo abbia di­me­sti­chez­za con i modelli che si usa­no per studiare l’evoluzione del­le epidemie. Non mi spiego al­trimenti come mai abbiano si­ste­maticamente ignorato gli in­segnamenti che da tale modellistica derivano, primo fra tutti che ritardare anche di pochi gior­ni un “lockdown” può co­stare migliaia di vittime. Per non parlare delle conseguenze economiche».

Ci sono responsabilità che si pos­sono individuare tra le decisioni politiche per le vittime del Covid?
«Se per responsabilità intende che certe decisioni errate abbiano prodotto migliaia di vittime non necessarie, la risposta è: sì, certo che ce ne sono state. Tra gli studiosi indipendenti dalla politica credo che nessuno lo metta in dubbio. Se invece mi sta chiedendo se sarà possibile, in base al principio della “ac­coun­tability”, chiedere ai politici conto delle decisioni prese, la risposta è no: si trincereranno sempre dietro l’insindacabilità delle scelte della politica. Temo proprio che i parenti delle vittime, nonostante i loro tentativi di avere risposte, non otterranno mai un’ammissione di re­sponsabilità, né delle scuse».

Come giudica l’idea di associare alla vaccinazione un luogo e degli “stand” preposti? La fretta di avere il vaccino si coniuga alle esigenze di sicurezza?
«Non ho un parere su questo, non sono abbastanza informato sulla vicenda».

Come dovrebbe essere gestita la distribuzione del vaccino?
«Non come quella del vaccino influenzale. Ma il problema ve­ro sarà, temo, che si formeranno due gruppi: il gruppo di quelli che vogliono vaccinarsi, ma non ottengono la dose perché non hanno i requisiti di età, e quelli tenuti a vaccinarsi, ma che non lo vogliono fare perché non si fidano del vaccino. Il tut­to complicato da un dibattito sen­za fine sulla sicurezza e sull’efficacia del vaccino, con tanto di graduatorie fra i vaccini del mondo».