«Una vita vissuta ad alta velocità con gli sci ai piedi»

Parla Erik Seletto, l’allenatore della Nazionale sciistica transalpina che vive nel Monregalese

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«Da piccolo scia­­­re non mi piaceva assolutamen­te. La prima volta che ho pro­vato, ho “preso freddo”. Non sono più stato su una pista fino all’età di 6-7 anni, quando andavo a sciare con i miei compagni di classe: loro facevano tutti “sci club”, mi prendevano in giro. E allora decisi che non era lo sport che faceva per me». Comincia co­sì, in modo sor­pren­dente, il rac­conto del monregalese d’adozione Erik Se­let­to. Da que­­gli approcci com­­plicati con lo “sport della ne­ve” ha saputo svi­­luppare una carriera di primissimo piano proprio nel mon­do dello sci; una carriera che lo ha portato prima a scrivere pagine im­portanti nella storia dello sci azzurro e poi a vivere esperienze da allenatore che lo hanno condotto, da protagonista, in gi­ro per il mondo.

Seletto, come sono stati gli ini­zi sugli sci?
«Non facili. Dopo l’addio a calcio e hockey mi sono “lanciato” sulle piste. La mia prima ga­ra era lunga 40”: ricordo che presi 35” dal primo. Poi ho iniziato ad allenarmi con assiduità, aiu­tato da mio papà: tre anni ho dopo vinto la mia prima ga­ra regionale. Se mi metto a fare una cosa, voglio farla come si deve…».
Cominciava così la scalata che l’ha portata in “azzurro”…
«È successo tutto in fretta: ho ini­­ziato a gareggiare nel circuito della Federazione internazionale sci a 16 anni, ho vinto gli Italiani Juniores in tre discipline, dopodiché sono entrato a far parte della Nazionale giovanile, per poi approdare direttamente alla Nazionale di velocità in Coppa del mondo».

La sua specialità?

«Gigante, Super gigante e discesa: per me erano equivalenti. In termini di emozioni, però, devo ammettere che la discesa mi da­va qualcosa in più…».

L’allenatore a cui è più legato?
«Il mio allenatore, nonché riferimento, è sempre sta­to mio pa­dre: purtroppo è mancato poco tempo fa».

Le esperienze più belle?

«Sicuramente la Coppa del mon­­­­­do, nella quale ho ottenuto po­di e diversi buoni ri­sultati. Il podio conquistato in Val-d’Isère resta un fantastico ricordo. Su­­­scitano grandi emozioni an­che la con­vocazione alle Olim­piadi di Na­gano del 1998 e i tre Campionati del mondo a cui ho partecipato».

Le Olimpiadi… Un so­gno, vero?
«Mi ci sono ritrovato a 22 anni e, seppure avessi “in mano” la qua­lificazione per la discesa, so­no stato escluso per dare la possibilità ai più “anziani” di gareggiare. Certo, ho corso la supercombinata e il SuperG, ma nella discesa ero più performan­te. Ma non mi è stato con­cesso di cor­rere. Vedendo il mio rammarico mi dissero “Sei giovane, ne farai altre”, ma non fu così».

Cosa ha frenato la sua carriera?
«Gli infortuni: al ginocchio sinistro ho subito sette operazioni, quattro al crociato anteriore. Il primo “crac” dopo le Olimpiadi, in finale di Coppa del mon­do: sono atterrato male dopo un salto. Trascorsi sei mesi, ero di nuovo sugli sci. Il mio ri­torno alle gare è coinciso con il primo podio in Coppa del mon­do. Il giorno dopo partivo con il numero uno, ero gasato: ho in­forcato in SuperG e mi so­no di nuovo infortunato. Gli al­tri interventi che ho sùbito non mi hanno più permesso di allenarmi con continuità».

Quando ha deciso di ritirarsi?
«Appena prima delle Olimpiadi di Torino. Mi al­lenavo da solo da tempo, da quando cioè era­no comparsi i problemi fisici. Mi univo alla squadra solo quando tornavano dalla preparazione in Sud America, ma questo non era gra­dito dallo staff. Per questo, dopo pochi allenamenti, i rapporti si deteriorarono: sarebbe stata una sofferenza andare avanti. Avrei potuto reclamare il “po­sto fisso”, essendo tra i primi 30 al mondo, ma rinunciai».

Come è iniziata la sua carriera di allenatore?
«Sono partito dallo Sci club Cer­vino, con la categoria Ra­gazzi: li ho seguiti per 4 anni. Poi, purtroppo, si è deciso di pun­tare di più sull’aspetto com­­­merciale e meno sulla preparazione all’attività agonistica; perciò me ne sono andato».

Dove?
«In Cile! Nel 2010 ho iniziato a seguire la Nazionale. Sono par­ti­to a giugno; a ottobre so­no tor­nato in Italia portando i ra­gazzi a fare esperienza. Uno di loro ha poi regalato i primi pun­ti in Coppa Europa per il Cile: non c’era mai riuscito nessuno. Un altro dei miei atleti è da qualche anno fisso in Coppa del mondo».

Poi il ritorno in Europa.
«Sì, da luglio 2011, con la Na­zionale spagnola. Sono diventato allenatore di due ragazzi di livello Coppa Europa: nelle fi­nali uno di loro ha centrato un podio, l’altro si è classificato nei cinque. Avrebbero dovuto partire in Coppa del mondo l’anno dopo, ma la Federazione spagnola ha avuto problemi economici e anche io ho lasciato. Dal 2012 lavoro con la Nazionale francese: alleno la squadra ma­schile di velocità. Di sicuro. un team di altro livello, composto da grandi professionisti, che ha vinto medaglie a Olimpiadi e Mo­n­­diali e gare in Coppa del mondo».

Ci parli del suo lavoro.
«Conclusa la stagione tra marzo e aprile, si parte subito con la programmazione. Analizzando i video di tutte le gare dei ragazzi si stabilisce una linea tecnica per cercare di migliorare le qualità di ciascuno. A metà maggio si parte con la preparazione atletica; dal 15 giugno si inizia con lo sci: per 3-4 settimane andiamo sui ghiacciai a Les Deux Alpes, dove facciamo ripresa tecnica leggera. Ad agosto, la trasferta di un mese in Cile. Tra ottobre e novembre si lavora a livello psicologico, di ge­stione e rassicurazione».

Come ha influito il Covid?
«A giugno Les Deux Alpes ha aperto praticamente per noi. Abbiamo dovuto rinunciare alla trasferta sudamericana, ma siamo stati fortunati perché, grazie al meteo favorevole, ab­bia­mo sfruttato al massimo il ghiacciaio di Zermatt e le piste preparate per noi a Cervinia per l’affinamento».

Un giudizio su squadra e atleti.
«Ho un “ragazzone” incredibile di 40 anni, Johan Clarey, che a li­vello atletico se la gioca con i più giovani. Poi, un paio di ragazzi che stanno crescendo, Nils Allegre e Mathieu Bailet; Adrien Théaux, che ha già vinto medaglie mondiali. E poi c’è la storia pazzesca di Valentin Gi­raud Moine: era promettentissimo, ha avuto un incidente orribile a Garmisch, dove si è rotto entrambe le ginocchia, ha rischiato l’amputazione. Due anni fa nessuno si immaginava che potesse ritornare a sciare, domenica 13 ha gareggiato ed è finito quindicesimo».

C’è ancora passione per lo sci?
«Certo, ma sono cambiate alcune cose. Una volta, i genitori fa­cevano sciare i bambini per di­ver­ti­men­to, ora per fabbricare cam­pioni. I vari “sci club” si stan­no concentrando più sulle “performance” che sull’inse­gna­­mento; non sempre si va a lavorare sui concetti giusti. Le famiglie pretendono risultati senza capire che magari i ragazzi non sono ancora pronti. Si registrano tanti abbandoni: in Italia molti campioni Junior si perdono per strada, altrove non succede. In Francia, comuni e comunità montane investono sui giovani, gli “sci club” ricevono soldi per far sciare e far acquisire esperienza ai giovani».

L’11 dicembre è stata la Giornata internazionale della montagna. Cos’è la montagna per Erik Seletto?
«Tutto. Ho sempre vissuto a due­mila metri di altitudine, è un “bel vivere” quando sei bambino, ma anche quando cresci. Non solo per lo sci, ma anche per le arrampicate, le pas­seggiate a raccogliere mirtilli, arnica e genepì. È un modo di vivere diverso. La montagna è la mia vita».