Nelle crepe più profonde della nostra società, quest’anno allargate enormemente da un’emergenza sanitaria che è presto diventata economica e umana, si nascondono le fragilità degli ultimi e dei dimenticati. Così, nel mondo delle dipendenze, chi già soffriva e viveva nel disagio si trova, oggi, a fronteggiare una nuova forma di solitudine, un distanziamento nel distanziamento, dagli incalcolabili danni esistenziali. Don Stefano Aragno, saviglianese, ha 51 anni, di cui gli ultimi 34 passati al fianco di coloro che, per dirla con le parole di De André, cercano di «lanciare il proprio cervello oltre il confine stabilito»: i tossicodipendenti, gli smarriti, chi non vede via d’uscita.
Don Stefano Aragno, lei oggi gestisce la Comunità Cenacolo di Saluzzo. Quando ha deciso che avrebbe dedicato la sua vita agli emarginati?
«Scelsi di fare il Servizio Civile al posto della leva militare e iniziai a collaborare con la Comunità Cenacolo: avevo 18 anni e da allora non me ne sono più andato, percependo, in maniera profonda e semplice, di essere arrivato a casa. In realtà, però, la mia storia è iniziata diverso tempo prima…».
Racconti.
«La mia famiglia fu toccata dal dolore: un cugino caduto nel mondo delle droghe. Ricordo che andammo a cercare questa suora della collina saluzzese di cui avevamo sentito parlare. Era il 1983, la struttura aveva appena aperto e a quel tempo era un rudere diroccato; io, invece, ero un ragazzino, e qui avvenne il mio incontro fondamentale. Trovai madre Elvira (Rita Agnese Petrozzi, ndr) nel refettorio, con la pala in mano, in mezzo al caos, ma con uno sguardo pieno di determinazione: andai a casa toccato nel cuore, pensando di aver visto il passaggio di Dio nella mia vita».
In tutti questi anni vicino alla sofferenza, che cosa sente di aver imparato?
«I primi tempi in comunità sono stati fondamentali. Io mi sentivo un ragazzo a posto che veniva ad aiutare i drogati e invece ho scoperto di essere, in un certo senso, più drogato di loro. Avevo tante paure, tante chiusure e questa vita di preghiera, vissuta insieme, mi ha aiutato molto. Oggi contemplo e osservo quanto l’uomo si possa smarrire ma anche, al contrario, quante risorse abbiamo per risorgere».
C’è una storia di “resurrezione”, in particolare, che l’ha colpita nel corso del suo cammino di fede e solidarietà a favore degli ultimi?
«Arrivò al cancello dopo un lungo viaggio di disperazione. I genitori pensavano fosse morto e lui viveva solo più in termini fisici: di spirituale era rimasto ben poco. Chiese aiuto e si salvò: oggi vive negli Stati Uniti ed è responsabile di quattro delle nostre comunità».
Chiudiamo con una domanda provocatoria: proprio in questi giorni si discute sui giornali di San Patrignano, la comunità di recupero per tossicodipendenti recentemente raccontata da una serie televisiva in tutti i suoi aspetti più ambigui e oscuri. Le chiedo, dunque, senza voler creare alcun tipo di associazione, se vi sia mai capitato di ricevere delle critiche per l’utilizzo di un approccio prettamente religioso a un tema così delicato o, più in generale, per i metodi da voi praticati.
«Le critiche appartengono alla vita e, come tutti, ne abbiamo ricevute e ne riceveremo. Noi le accogliamo e ci mettiamo in discussione, come è giusto che sia: la cosa più bella che ho imparato da suor Elvira è, però, che ai bisognosi servono persone che si accostino a loro e si rimbocchino le maniche. A noi interessa solo mettere il cuore in ciò che facciamo e accogliere coloro i quali bussano alle nostre porte».