“Una montagna d’uomo, con due mani grandi e degli abbracci che ti inghiottivano”. La fisicità di Vincenzo Muccioli, nel ritratto del figlio Andrea, intreccia già soggezione e protezione. Sintesi d’un personaggio che sovrappone maschere ed estremizza giudizi, che divide ancora venticinque anni dopo la morte. È stata la docuserie su San Patrignano, successo Netflix, a riaprire il dibattito su una figura controversa, santo o aguzzino, generoso o megalomane, eroe o ciarlatano, carismatico o imbonitore: non c’è una verità e non potrà mai esserci, perché le contraddizioni di una personalità sfumavano in quelle di un sistema, nel metodo della comunità di recupero fondata nel ’78, speranza per giovani tossici e per le loro famiglie, abbandonati da uno Stato impreparato all’emergenza, soli nelle loro lacerazioni, dentro vite diventate inferno, la droga che acceca e divora, l’amore che si tramuta in odio, l’impotenza che piega. C’erano, in quegli anni, genitori disperati giunti ad augurare la morte a figli incontrollabili schiavi dell’eroina, e che hanno ritrovato senso e sorriso grazie all’oasi voluta da Muccioli per spezzare quelle maledette catene.
In migliaia ne hanno beneficiato, sono usciti rinnovati nell’anima, ma quel lembo di campagna romagnola ha pure nascosto sopraffazione, dolore e morte: altre catene erano utilizzate per impedire fughe, per trattenere gli ospiti nei giorni più duri dell’astinenza e della ribellione, per punire la disobbedienza. Per alcuni il prezzo giustissimo delle tante vite salvate da un gigante buono, per altri la prevaricazione di un guru. Da un lato il papà che dosa carezze e ceffoni, dall’altra il “padre padrone” che non dialoga ma castiga. Contraddittorio, d’altro canto, perfino l’aspetto: il faccione genuino e i baffetti evocanti dittatori. La casa di Muccioli è stata accoglienza e violenza, ha restituito dignità e vita, ma è stata anche la tomba di Natalia e Gabriele, suicidi, e di Roberto, assassinato: si seppe dopo anni, grazie a un testimone travolto dai sensi di colpa, ch’era stato ammazzato di botte, perché il corpo, portato via, fu ritrovato lontanissimo dopo la finta denuncia di una fuga. Muccioli seppe dopo qualche mese ma tacque, anche questo divide: convisse con un peso per non tradire una confessione e salvare la comunità o fu complice di un delitto? E la registrazione rubata in cui lasciava balenare un omicidio svela il suo lato più oscuro o solo la tendenza a eccedere nel linguaggio? Un fatto è certo. Muccioli agì mentre attorno regnava l’indifferenza, tese una mano agli ultimi, agli zombie che popolavano le città piegati dal veleno in cui si rifugiavano rifiutando la società: non era medico, non era psicologo, ma provò a fare qualcosa, a dare fiducia e speranza. Sbagliò, sicuramente. Anche gravemente. Forse perché era impossibile pensare di strappare quei ragazzi al mostro senza durezza, forse perché la crescita della comunità gli impedì di seguire tutti personalmente e nelle deleghe non fu sempre illuminato, forse perché San Patrignano diventò così grande da tramutarsi in business e lui così importante, così blandito, da cedere al narcisismo sentendosi infallibile. Forse, semplicemente, per capire che Luci e Tenebre, sottotitolo della docuserie che i detrattori sostengono insista in realtà soprattutto sulle tenebre, convivevano, è utile la frase di Fabio Cantelli, ex ospite strappato alla droga: «Sono tutto questo grazie a Vincenzo e San Patrignano e nonostante Vincenzo e San Patrignano».
Le due anime di Muccioli
Santo o aguzzino, papà buono o “padre padrone” violento: venticinque anni dopo la morte, riproposta dalla docuserie su Netflix, la figura del fondatore di San Patrignano divide ancora. E dividerà per sempre perché non esiste una sola verità