Non è raro che il passare dalla lettura di una autobiografia alla conversazione con l’autore della stessa trasmetta una sensazione di scollamento, come se si avesse a che fare con due storie tutt’altro che sovrapponibili. Per Libo Riba e il suo “Un lungo viaggio-I paesi, le valli, il partito, la gente” invece, vale il discorso esattamente opposto. Confrontandosi con lui dopo aver letto le pagine del suo libro edito da ArabaFenice si ricava, infatti, una sensazione di continuità, nel segno della giovialità e dell’ampiezza dell’analisi. 300 pagine in cui una delle figure più significative del Pci cuneese e delle sue evoluzioni successive, ripercorre le vicende che lo hanno visto protagonista e testimone, dal 1950 al 2020. Dal’infanzia a Paschera San Defendente di Caraglio, al percorso formativo nell’istituzione scolastica, dai primi lavori svolti, agli anni presso il Provveditorato agli Studi di Cuneo e gli importanti incarichi politici ricoperti dentro e fuori il partito (negli anni ’90 fu consigliere regionale, vicecapogruppo del Pci-Pds e poi assessore regionale all’agricoltura), per concludere con le battaglie fatte in 15 anni da presidente di Uncem Piemonte, per smarcare la montagna da quella posizione di marginalità nel progetto di sviluppo del Paese in cui è stata costretta per decenni. Il tutto raccontato mai in chiave malinconica.
Riba, questo “piacere del ricordo” che traspare nelle pagine che ha scritto è un suo modo abituale di affrontare le cose?
«Un po’ di “amarcord” c’è, ma abbiamo sempre avuto una visione positiva delle cose da fare, non c’è mai stata, nelle mie diverse esperienze, una posizione remissiva o malinconica».
Saprebbe dire quando si è scoperto comunista?
«Sono stato “un po’ comunista” sin dalla tenera età: a 8 anni già distribuivo volantini del partito davanti alla scuola, poi ho continuato con questa “dotazione culturale” che rappresentava una scelta di famiglia. Un mio zio, fratello di mio padre, era già socialista prima del Ventennio. Io mi sono portato dentro quel sentimento politico. Ho iniziato negli anni ’60 con un Partito Comunista che aveva ancora un’impronta togliattiana, basato sul centralismo democratico e sul rigore. La dirigenza provinciale dell’epoca voleva un rinnovamento ma nella continuità e questo non corrispondeva più alle richieste dei giovani. Io, con la mia cultura laica, e Sergio Soave, con la sua provenienza cattolica, insieme a Franco Revelli avevamo già un’idea diversa».
Il mondo dell’agricoltura ha inciso sulla sua vita, prima come presidente dell’Alleanza dei contadini e, nel 1994, come assessore regionale, nella giunta di Gian Paolo Brizio…
«Quello in Regione fu un bellissimo periodo. Era il tempo di cambiare completamente il concetto organizzativo e la funzione dell’agricoltura nella comunità produttiva. Su quel piano, con lo staff dell’Assessorato, ci siamo spesi molto, attuando “ante litteram” quello che sarebbe poi stato fatto per la montagna».
Con gli agricoltori, da presidente dell’Alleanza dei contadini, ha guidato una manifestazione che rimane negli annali…
«C’erano 5.000 contadini a occupare Ponte Soleri di Cuneo, in protesta per la crisi del mercato della carne. Il vicequestore che mi conosceva fin dai tempi della scuola mi disse: “Lido, con quello che hai gridato te ne sei fatto già per due o tre anni. Rimanete per 5 minuti e poi andatevene, così puoi dire di aver occupato e noi di aver sgombrato”. Solo che in quel caso non aveva più a che fare con studenti imberbi, ma con allevatori esasperati…».
Nella copertina del suo libro, però, ha messo la foto di un’altra giornata di piazza…
«Quella foto si riferisce a un’iniziativa dell’Uncem ed è stata scattata nel 2007. Quando, con il presidente nazionale Enrico Borghi, si è deciso di provare a tirare fuori il mondo della montagna da una posizione minoritaria, siamo riusciti a mettere in piedi una manifestazione con 30.000 montanari a Roma!».
Nel libro usa spesso “bello”. Che ruolo ha per lei la bellezza?
«Noi una distinzione tra il bello e il brutto l’abbiamo sempre fatta. Bello è ciò che è divertente, costruttivo, che scava nel profondo e pone idee nuove. Il concetto del bello ce l’avevamo come senso della società che volevamo cambiare. Direi che mi è venuto istintivo usare spesso il termine bello come elemento di aspirazione».