Che i dodici mesi appena trascorsi siano stati fuori dall’ordinario è ormai una certezza. Ma come lo hanno vissuto i ragazzi negli anni della prima adolescenza? Se lo è domandato il regista Marco Ponti (il cui nome è legato, tra gli altri, a film “cult” come “Santa Maradona”) o meglio ha chiesto a loro, i ragazzi, di raccontarlo in un video di massimo tre minuti. Il progetto è quello di utilizzare i migliori per la realizzazione di un documentario prodotto dalla torinese Redibis Film, in collaborazione con Sugarland Produzioni, intitolato “Il mio anno stranissimo”. Ne parliamo con il produttore Daniele Segre, fondatore di Redibis Film.
Come è nata la collaborazione con Marco Ponti per “Il mio anno stranissimo”?
«Volevamo registrare l’esperienza del “lockdown” visto dalla parte di chi ha tra i 10 e i 14 anni, per cui abbiamo lanciato una “call” con le istruzioni per inviare un video e raccontare in soggettiva come hanno vissuto questo periodo, quali sono stati i rapporti con gli amici, con la scuola a distanza, come hanno affrontato i vari passaggi: “lockdown” totale, pausa estiva, il ritorno alla chiusura. Ci siamo resi conto che questa fascia è stata quasi dimenticata, nessuno ha riflettuto su come avrebbero reagito i bambini e ragazzi giovani a questo tsunami arrivato in una fase delicata di costruzione della loro personalità. Più video riceviamo e più questo documentario, realizzato per la Rai, sarà una fotografia fedele».
Quali reazioni avete notato dal materiale giunto finora?
«I video sono sorprendenti e creativi, senza autocommiserazione: non ci si mette davanti al video per piangere. Un bambino ha mandato un disegno dove spiega a modo suo il distanziamento, un altro ha ripreso sé stesso che parla con la mascherina. All’inizio abbiamo avuto difficoltà a ricevere i video, la chiave è stata coinvolgere le scuole».
La durata deve essere inferiore ai tre minuti. La sintesi aiuta a capirsi meglio?
«Forse sì. Anche il mezzo. Un conto è essere in classe con amici e insegnante, un altro, solo nella tua cameretta e raccontare alla telecamera in poche parole i tuoi pensieri. Cosa stiamo cercando? Proprio questo avvicinarci alla verità di come si sono sentiti i ragazzi in questi mesi».
Molti registi si sono cimentati con il “lockdown”, questa concorrenza vi spaventa?
«È vero. Gabriele Salvatores ha realizzato “Fuori era primavera” e altri registi hanno realizzato progetti su questo argomento. È normale che chi si occupa di film abbia tentato di registrare in tempo quasi reale l’evento eccezionale che si stava verificando. Noi abbiamo pensato di dedicarci a una fascia molto ristretta e specifica, l’età più delicata».
Verosimilmente verremo inondati da documentari, film, libri sulla pandemia. Non faremo indigestione?
«Si tratta di una domanda legittima. In passato, però, ci sono state centinaia di film dedicati alla Seconda Guerra Mondiale e ancora se ne producono. La pandemia inoltre, rispetto ad altre calamità circoscritte ad alcuni Paesi, ha modificato la percezione degli altri e dei rapporti in ogni parte del pianeta. L’impatto è stato così massiccio e sarà inevitabile occuparsene da decine di diverse angolazioni».
Qual è la vostra?
«Più che un “focus” sulla pandemia in sé ci è sembrato interessante pensare a come la società è cambiata in seguito alla pandemia. Usciranno horror, distopie, opere di fantascienza, ma la parte che ci tocca nel profondo è capire come la crisi ci avrà modificato, una volta che ne saremo fuori. Quando torneremo alla vita quasi normale, come saremo? I ragazzi bloccati in casa per mesi come affronteranno i primi flirt, gli approcci sociali, gli esami dal vivo dopo le sensazioni di questo anno? Ci sarà un buco nella loro crescita nella scuola, nei rapporti, nei primi amori? E se sì, come lo gestiranno?».
Chi si è salvato?
«Forse i neonati. La mia bambina di sei mesi, Emma, non ha ancora visto nessuno tranne i genitori. A volte mi chiedo se questo influirà sulla sua crescita».
Come è stato lavorare nel mondo dello spettacolo nel corso di quest’anno?
«Una grande fonte di preoccupazione, soprattutto quando ci si è resi conto che nelle comunicazioni ufficiali questo settore era il grande assente e non si faceva cenno a future riaperture di musei, teatri, cinema. Senza polemica, non si capisce bene perché si siano riaperti i negozi e non i musei, luoghi da sempre controllatissimi. Bisogna iniziare a considerare il settore dello spettacolo e della cultura non come un banale passatempo, ma come un comparto essenziale per la vita e per l’economia del Paese».
Che cosa cambierà?
«Tutto verrà ripensato. Ma questo “lockdown” ha dimostrato che senza libri, cinema, mostre e film la nostra vita sarebbe più povera e triste».
La Messa sì, il cinema no. Come vede questa discrepanza?
«È difficile da comprendere. Avranno pensato di mantenere un luogo per dare sollievo a chi crede, a chi non ha altro».
C’è spazio per l’ottimismo?
«Io sono ottimista e fiducioso, la gente ha una gran voglia di consumare cultura. Si tratterà di vedere come saremo capaci di modificarci, di adeguarci, di trovare una nuova via».
Nei suoi ricordi c’è anche Che-rasco; ha mai pensato alla “città delle paci” dal punto di vista professionale?
«Sì, Cherasco è il luogo della mia infanzia e della mia famiglia, ci torno con piacere. Un mio sogno è quello di creare un progetto “ad hoc” per la città, magari legato alla sala cinematografica, ora chiusa. I miei ricordi mi riportano al campetto, alle partite a calcio, alle lunghe estati passate lì. Agli amici e ai giri in bicicletta. Vorrei che anche mia figlia potesse passarci del tempo».