Un medico cuneese, Enrico Luigi Toselli, dai nobili natali, decide di trasferirsi in Sardegna per curare i più poveri, nei paesi dimenticati da Dio e dagli uomini. Morto nel 1930 a Perdasdefogu, dove è sepolto. Un rivoluzionario, Cesare Grandi, nato in quella parte di Emilia che è anche Veneto e forse pure un po’ Romagna, morto nel 1901 in seguito ad uno scontro con i carabinieri che volevano impedire un corteo di lavoratori in sciopero.
Due mondi all’apparenza lontani, privi di punti di contatto. E invece molto vicini. Non soltanto perché ai due personaggi sono stati dedicati altrettanti libri da Maurizio Grandi, oncologo che è nipote del primo e pronipote del secondo. Ma anche e soprattutto perché entrambi erano animati da quella passione politica che li faceva lottare, seppur in modo estremamente diverso, a favore degli ultimi.
”Il medico, mio nonno” (edito da La Torre, 187 pagine, 12 euro) è il volume dedicato ad Enrico Toselli che lascia l’agio della provincia piemontese e di una famiglia di prestigio per andare a vivere in Sardegna. Anarcosocialista, potrebbe essere definito ora. Seguace di Garibaldi, mazziniano, in rapporto con i letterati del tempo. Anche archeologo, e cacciatore. Con la madre di Enrico, triestina ma di ceppo austriaco e fedelmente legata all’imperatore, con il fratello Amilcare, aviatore ed eroe della prima guerra mondiale, con il cugino Pietro Toselli medaglia d’oro al valore militare caduto all’Amba Alagi.
La buona borghesia piemontese, la piccola nobiltà di provincia era sempre in prima linea se c’era da combattere per il proprio Paese. Sul campo di battaglia o nei luoghi abbandonati per combattere contro le malattie. A prescindere dal credo politico.
“Cesare Grandi, il Fiume, la Bonifica, il Ponte” (edito sempre da La Torre, 230 pagine, 15 euro) ripercorre, invece, non solo parte della storia della famiglia Grandi ma affronta i temi sociali, politici e anche geografici di una terra tra le acque del Po ed il mare. Una storia del Delta, dura come era dura la vita sul finire dell’800 e all’inizio del secolo nuovo. Tra scioperi, scontri, povertà crescente, le zanzare, la bonifica, le malattie. Una terra dove, come ha scritto Bacchelli, nessuno era così povero da non potersi permettere un coltello.
Teste calde. E, indubbiamente, Cesare Grandi non era un tipo calmo e rassegnato. Seguace di Bakunin, apprezzato da Andrea Costa, a capo del Club di Ariano (una forma di associazionismo differente dalle Leghe, più simile alle “Unions” britanniche). Non poteva certo mancare allo sciopero che, vicino a Berra, vide insieme i lavoratori ferraresi e quelli del confinante Veneto. Il Po, il “grande fiume”, non li divideva, ma li univa. Perché i problemi erano gli stessi ed identica la lotta. Identiche anche le forze dell’ordine che sparavano su contadini disarmati.
Due mondi diversi, all’apparenza. Ma due mondi che sapevano indignarsi per le ingiustizie. Due mondi pronti ad entusiasmarsi, con i rispettivi eredi, per l’Italia che nel ’22 provava a cambiare. Non c’è da stupirsi. La componente anarchica e socialista era fondamentale nel primo fascismo.
Articolo a cura Carlo Sburlati