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«Mi piace scoprire il lato umano dei campioni»

Enzo D’Orsi, storico inviato del Corriere dello Sport, si racconta dalla “sua” Saluzzo

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Anche nel mondo dello sport il 2020 che ci siamo da poco lasciati alle spalle verrà ricordato per ciò che ha determinato e per ciò che ha drammaticamente portato con sé: la pandemia e le sue conseguenze sanitarie, sociali ed economiche; il rinvio, proprio a causa dell’emergenza, di Europei di calcio e Gio­­­chi Olimpici; l’addio a campioni dello sport “giocato” co­me Pao­lo Rossi, Diego Ar­man­do Ma­radona e Kobe Bryant e a quelli dello sport “raccontato”, tra cui Gianni Mura, Franco Lauro, Claudio Ferretti, Bruno Ber­nardi. Pur confrontandosi con ciò che questi 12 mesi hanno lasciato, è opportuno guardare avanti. IDEA ha provato a farlo colloquiando con il giornalista Enzo D’Orsi, umbro d’origine ma residente a Saluz­zo, storico inviato del Corriere dello Sport, che ha di recente regalato agli appassionati del pallone una nuova opera: “Mi­chel et Zibi. Gli amici geniali”.

“Michel et Zibi” è la storia dell’amicizia tra due campioni co­me Platini e Boniek. Com’è nata l’idea del libro?
«Volevo presentare un ultimo racconto del calcio “che fu” e che ho avuto la fortuna di vivere da vicino nei miei anni da giornalista “in prima linea”. È la storia di una vera e grande amicizia, come se ne vedono tante nel mondo, che ha però una peculiarità: quella di essere nata tra due campioni veri, spesso raccontati per i loro successi sportivi e poche volte per i loro tratti più umani».

Perché “amici geniali”?
«Platini e Boniek hanno dimostrato di essere “amici geniali” in tutto ciò che hanno fatto. Prima, in campo, con giocate al limite dell’impossibile e spesso decisive per i successi della Ju­ve più vincente della storia. Poi, fuori dal campo, dove han­no coltivato la loro amicizia rag­giungendo il culmine con l’elezione del francese a presidente dell’Uefa nel 2007, an­che grazie al sostegno del polacco, che lo “sponsorizzò” nel­l’Europa dell’Est. Un uomo in­tel­ligente, Boniek, oltre che un campione forse troppo poco ce­lebrato rispetto a quanto fat­to nel corso della sua gloriosa carriera».

Calcio e amicizia, ovvero il lato umano dei campioni. Da questo punto di vista, quanto è cambiato lo sport del pallone?
«Ahimè, tantissimo. Il calciatore del Ventunesimo Secolo è molto più vicino a un’azienda che a un essere umano per scelte, comportamenti e attitudine. È emblematico il rapporto, praticamente assente, instaurato con i giornalisti: gli uffici stampa filtrano ogni informazione e impediscono, di fatto, un rapporto diretto con il campione, che spesso non sa nemmeno chi siano gli inviati che seguono la squadra in cui gioca. Ricordo moltissimi confronti di­retti con giocatori che avevano ricevuto un “quattro” in pagella: erano loro a cercarti e a confrontarsi con te, perché ti conoscevano e volevano conoscere la tua opinione».

I “social network” possono aiutare a mitigare le distanze?
«Temo di no. In molti casi, sulle piattaforme “social”, non sono i giocatori a scrivere, ma “social media manager” pagati proprio per redigere contenuti “adatti”. Il rapporto diretto è un’appa­ren­­za: sai di poter contattare facilmente un personaggio fa­moso, ma è praticamente cer­to che questo non ti risponderà o che lo farà qualcuno al suo posto, con frasi di circostanza».

Non c’è il rischio di apparire trop­po nostalgici?

«È il rischio con cui ci confrontiamo regolarmente. Ogni epo­ca ha avuto i suoi miti e le sue storie da raccontare: quando ero giovane io, i cronisti più e­sperti celebravano l’amicizia, in campo e fuori, tra “El Ca­bezón” Omari Sívori e il “Gi­gante Buono” John Charles. La mia generazione ha altri mi­ti, quella dei nostri figli altri an­co­ra, ma penso si possa dire con una certa obiettività che qual­cosa, anche se non tutto, è cambiato e, aggiungo io, in peggio».

Che cos’è il calcio oggi, quindi?
«Uno sport innovato, modificato, contaminato dalla scienza e dal culto del “dato” come elemento vincente. Quel che è certo, però, è che il calcio è pur sempre il calcio, ovvero una que­stione drammaticamente umana, in cui è l’uomo a decidere la propria sorte e quella della propria squadra. L’aspetto tecnico è rilevante, ma senza la giusta coesione e il giusto “feeling” i risultati non possono arrivare».

Insomma, la vera essenza del calcio non è scomparsa, per fortuna. Un’es­senza esaltata da figure come quella di Diego Ar­mando Ma­radona, che ci ha purtroppo la­sciati nel “nefasto” 2020. Come lo definirebbe?
«Un grande personaggio, oltre che un campione di massimo li­vello. Proprio Platini disse un giorno: “Maradona fa con un’a­rancia quello che io posso fare con il pallone”. Era un cam­pio­ne “totale”, apprezzato an­che per la sua propensione a stare in mezzo alla gente. Il suo era il calcio vero, quello maturato e “plasmato” per strada. Il suo gol più famoso, ovvero il secondo mes­so a segno contro l’In­ghilterra nel 1986, è il riassunto perfetto di quella fame e di quella tenacia che so­lo chi era cresciuto in un “barrìo” di Buenos Aires poteva possedere».

È stato il più grande di sempre?
«Andrò controcorrente, ma dico di no. Premesso che Pelé non può essere paragonato agli altri perché, per numeri e risultati raggiunti, concorre in un campionato a parte, per me il più forte di sempre è stato Alfredo Di Stéfano. Parlando di lui, il grande Bruno Pesaola ripeteva sempre che apparteneva a “otra categoria” per via di ciò che aveva fatto nel calcio. Non a caso, il Real Madrid di­venne grande proprio dopo il suo arrivo».

Messi e Cristiano Ronaldo?
«Due fenomeni che possono sedere al tavolo dei migliori di sempre. Han­no vinto tanto, al punto che il successo delle loro squadre in un trofeo internazionale oggi appare quasi come una cosa da poco. I numeri parlano per loro, anche se oggi forse è im­possibile vincere una partita da soli e quindi i loro successi suscitano emozioni diverse rispetto al passato».

Nel 2020 abbiamo pianto anche Paolo Rossi. Il suo ricordo.
«Rossi è stato il simbolo del Mondiale del 1982 e anche di quello del 1978, in cui forse l’Italia avrebbe meritato ancora di più la vittoria. Un grande italiano e il simbolo di un’intera generazione».

In conclusione, c’è qualcosa da salvare del “calcio moderno”?
«Tanto. Il rovescio della medaglia rispetto a quanto detto pri­ma è, ad esempio, una maggiore competenza da parte degli appassionati. Quando non sfocia nella mera discussione da bar, spesso violenta e volgare, il dibattito calcistico dimostra di essere cresciuto in termini di qua­lità. Mi è capitato di confrontarmi con tifosi che avvaloravano le loro tesi non con contenuti avventati, ma con argomentazioni attente e precise».

BaNNER
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