Che cosa spinge degli italiani che hanno trovato la loro strada all’estero a tornare nella loro patria per reinventarsi? Se lo sono chiesti Anna Luciani e Simone Chiesa che, dopo una lunga carriera di viaggiatori all’avventura, hanno realizzato il programma di successo “Voglio vivere in Italia” e ora sono tornati a bordo del loro camper rosso, con l’obiettivo di scoprire le storie di chi del proprio Paese, dopo una ricca esperienza oltre confine, si è rinnamorato. Il loro programma “Torno a vivere in Italia”, su LaEffe, svela le storie di chi ha deciso di invertire la tendenza dei “cervelli in fuga” e di ritornare all’origine con determinazione. Abbiamo raggiunto Anna per conoscere lei e questi italiani di ritorno.
Come è iniziata la vostra avventura?
«La nostra prima esperienza è stata “Couchsurfers” e ci ha visti in Brasile e in Australia. Abbiamo girato i due Paesi chiedendo ospitalità gratuita alle persone del posto, come prevede il “couchsurfing” (letteralmente “fare surf da un divano all’altro”, ndr). Il programma raccontava le storie di chi ci offriva un letto di fortuna, un divano o un semplice spazio per terra. Ci interessava narrare punti di vista personali più che panorami da cartolina. Mentre nei primi viaggi ci spostavamo in autobus, in seguito siamo passati a un furgone rosso, il nostro mitico Mr Falcon».
Qual è la differenza con l’attuale “Torno a vivere in Italia”?
«Trovandoci in Italia il “format” ora è più strutturato, ma la nostra formula che prevede spontaneità e improvvisazione rimane invariata».
Con il vostro furgone siete passati anche per le Langhe?
«Nella prima serie, “Voglio vivere in Italia”, siamo stati all’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo per intervistare una ragazza delle Bermuda che ha scelto di vivere a La Morra. E, poi, Alba è il mio luogo del cuore: lì ho parte delle mie radici (la madre, Angioletta Morabito, è di Alba e il padre, Liviano negli anni ’70 è stato uno dei calciatori più rappresentativi dell’Albese, in Serie D e C, ndr).
In base alla vostra esperienza legata al programma, che cosa spinge gli italiani a partire?
«All’estero c’è più meritocrazia ed è possibile una più rapida crescita professionale, tanto in università quanto nelle aziende. Chi ha scelto di vivere in metropoli in grado di offrire molte opportunità ha vissuto una rapida ascesa nella sua carriera, in un ambiente iperstimolante. Il rovescio della medaglia è il trovarsi su una giostra di opportunità che si susseguono, alla rincorsa di qualcosa che non si riesce mai ad afferrare. Talvolta mentre la vita lavorativa avanza rapidamente, ci si trova a chiedersi “ma il resto della mia vita dov’è?”»
Perché a un certo punto si torna?
«La dimensione umana e culturale italiana non ha eguali nel mondo. Non parlo solo dell’arte e della storia ma anche della cultura sociale, della condivisione dei tempi e degli spazi. Il mangiare insieme a casa, il trovare il tempo per un aperitivo dopo il lavoro non sono così comuni all’estero. Sono aspetti che noi diamo per scontati ma con il tempo mancano.»
Che cosa rappresenta dunque il ritorno?
«L’Italia riacquisisce un senso di possibilità. Si torna per fare la rivoluzione che senza la parentesi all’estero non sarebbe stata possibile».
Ci fa un esempio?
«Un ragazzo di Padova è partito per Harvard dove ha raggiunto i massimi livelli accademici. È un ingegnere biomedico, progetta esoscheletri in grado di aiutare persone con lesioni importanti, aveva raggiunto risultati brillanti ma non gli era possibile incontrare i pazienti, vedere i progressi avvenuti grazie ai suoi studi. Così è tornato a Padova dove ha creato una sua azienda e ora può finalmente seguire l’intero processo, come desiderava. Siamo orgogliosi di dire che il programma ha messo in contatto l’azienda con persone in difficoltà».
Si torna anche per la nostalgia del cibo italiano?
«Non è il motivo principale per tornare, ma conta. In Italia abbiamo rituali di condivisione del cibo che sono molto nostri. Anche se lavoriamo tanto, come si vede dal successo dei nostri “cervelli in fuga” all’estero, noi non perdiamo mai di vista la socialità».
Che cosa manca all’Italia per essere al passo con il mondo?
«La possibilità di reinventarsi professionalmente in qualsiasi momento. Da noi è molto complicato perché la flessibilità ha perso spazio in favore della precarietà. Manca un “welfare” che sostenga durante il percorso di cambiamento. Non è solo colpa della burocrazia lenta e complessa, ma anche di un retaggio culturale, ovvero del timore di sperimentare strade nuove in un sistema che non dà garanzie».
C’è dell’altro?
«Sì. Questa è l’altra abissale differenza: mentre all’estero i fallimenti sono visti come una parte importante della crescita professionale, qua da noi vengono giudicati come errori di cui pentirsi. E partire con questa paura atavica di fallire appesantisce inevitabilmente le scelte, ad ogni età. Se non vivi l’errore come qualcosa che è servito per crescere, non te lo perdonerai mai. E, peggio ancora, ti metterai nella condizione di non metterti nemmeno alla prova».
Come hanno preso i tuoi genitori questo cambio di rotta, da urbanista a “couchsurfer”?
«Non è stato semplice, perché io avevo un lavoro sicuro in un ente pubblico. Ma la mia famiglia è stata sempre il mio supporto pratico e psicologico e ora ha capito che non era uno sfizio ma l’ambizione nel voler realizzare un progetto di valore».
Lei e Simone Chiesa oltre che colleghi siete anche una coppia. È difficile lavorare insieme a progetti così totalizzanti?
«Non troppo. Nei nostri viaggi siamo entrati in contatto con centinaia di persone, non siamo mai stati davvero soli, c’erano infiniti stimoli. Soprattutto all’estero inoltre è stato fondamentale essere due per gestire le diverse situazioni, non solo dal lato pratico ma anche da quello emotivo. In coppia si può sopperire alle carenze dell’altro. Trattandosi di un viaggio di lavoro, oltre che di un’avventura personale, avviene una vera fusione tra la vita e il progetto professionale da portare a termine. Quando ci sono problemi tecnici, ad esempio, bisogna essere lucidi ed agire come un team, in perfetta sintonia per portare a casa il lavoro entro i tempi stabiliti. Ci possono essere momenti di tensione, ma l’importante è condividere la stessa passione per questo stile di vita».
Tre consigli per i ragazzi: come trasformare la passione per il viaggio in un progetto?
«Trovare una chiave di lettura originale. Buttarsi, senza troppo timore. Non lasciarsi abbattere da chi dice che di sogni non si può vivere. A volte capita anche a me di vacillare, ma ho una consapevolezza: se guardo indietro a tutto quello che ho realizzato so che ne è valsa la pena».