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«Non si faccia pagare la crisi a donne e giovani»

Tiziana Ferrario, già conduttrice del Tg1, è impegnata contro disparità e disuguaglianze

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I giovani e le donne che più di tutti pagheranno questa crisi, il “ticket Biden-Harris” alla riconquista dell’America più profonda, la sgangherata crisi politica che il nostro Paese affronta nuo­vamente («ma Renzi nel merito ha ragione») e poi, na­tural­­mente, i reportage degli anni in Medio Oriente. Sono i temi principali della chiacchierata fatta con Tiziana Ferra­rio, donna di vaste co­noscenze e di grandissima esperienza. Il suo è un curriculum che parla da sé: volto storico della Rai, per anni “anchorwoman” del Tg1, inviata all’estero e scrittrice. È proprio la vastità della sua carriera a raccontare al meglio l’anima della professione giornalistica che de­ve essere capace di spa­­ziare in campi sempre originali e di a­prirsi senza pau­ra a nuovi mon­di, da osserva­re con sguar­do lu­cido e rigoroso.

Ferrario, partiamo da Renzi: fa be­ne a scatenare la crisi di governo?
«Renzi, come spesso gli capita, sbaglia tono e metodo, ma cre­do ab­bia ragione quando mette in luce i limiti dell’azione di governo che, da un po’, sembra essersi incartata. Conte si era mosso bene nella prima fase ma poi, quando è intervenuta l’Eu­ropa con il suo piano di salvataggio, si è persa lucidità».

Il tempismo non sembra dei migliori, però. Il Paese è sconvolto dalla pandemia, la crisi economica e sociale dilaga…

«Infatti non condivido le modalità con cui Matteo Renzi ha creato questa spaccatura: ha perso il controllo e ora stiamo perdendo tempo. D’altra parte, è inevitabile che si debba uscire dalla spirale negativa in cui si è infilato il Governo e si cerchi un dialogo tra maggioranza e opposizione in grado di superare la mera logica della popolarità personale. Il gioco dei “like”, questo tenere conto solo del gradimento generato agli occhi dei cittadini, perdendo di vista le necessità reali, deve finire».

Eppure, per l’ennesima volta, si ha la sensazione che il cosiddetto “Paese reale” vada da una parte e la politica romana dall’altra; che si sia formata una distanza siderale tra i bisogni delle tante categorie in difficoltà e ciò di cui si discute nelle stan­ze dei bottoni. È così?
«Indubbiamente c’è un malessere diffuso. In termini economici siamo il fanalino di coda dell’Europa e le disuguaglianze crescono esponenzialmente, portando a fratture nel cor­po sociale sempre maggiori. In­tendiamoci, le colpe sono della politica: il populismo dilagante degli ultimi anni ha creato illusioni che, quando vengono smen­tite, producono rabbia. E la pandemia sta fa­cen­do da acceleratore».

Chi è stato maggiormente colpito dalla crisi?
«Le donne, senza dubbio. Sono spesso in prima li­nea nella lot­ta al virus come in­fermiere e operatrici delle Rsa, ma an­che come ricercatrici e studiose; in certi casi, si barcamenano con lavori precari o “part-time”. Sen­­za di­menticare che nel no­stro Paese è su di loro che di solito grava il peso della gestione familiare e, nei casi in cui viene praticato lo “smart working”, le due cose si saldano senza soluzione di continuità. E poi i giovani, naturalmente, piegati da una chiusura delle scuole che manda avanti solo chi ha già le risorse per farlo e dall’aumento vertiginoso del debito pubblico: se ripenso alle opportunità che ha avuto la mia generazione il confronto è impietoso».

È stato facile emergere in una realtà competitiva come quella del giornalismo?
«Io mi sono affacciata in quel mondo verso la fine degli anni ’70: era un periodo entusiasmante, molto ideologizzato, e a Milano, la mia città, si respirava tanta voglia di fare. Ho colto le opportunità: la nascita delle tv private ha segnato un cambiamento culturale per l’Italia e per me è stata una svolta: mi ha permesso di entrare nei notiziari regionali. Poi, nel 1982, è arrivato il trasferimento a Ro­ma per lavorare al Tg1, dove sono rimasta fino al 2018, documentando i conflitti in Me­dio Oriente fino ad arrivare a New York. Come tanti altri, og­gi il giornalismo è un settore in crisi e per i giovani sembra es­sere difficilmente accessibile».

Che cosa l’ha segnata di più? Raccontare il passaggio da Oba­ma a Trump o le guerre del “do­po 11 settembre”?
«Nel mio cuore rimane un legame speciale con l’Afghanistan e le persone che ho incontrato lì. Gli Usa, comunque, ci sanno sempre stupire: fu una grande novità l’arrivo di Obama così come quella di Trump e, in questi giorni, non può che lasciare meravigliati vedere una donna di origini indiane e giamaicane, sim­bolo dell’America multiculturale, giurare come vice del presidente Biden. Kamala Harris è stata decisiva in questa corsa alla Casa Bianca e il suo arrivo segna un passaggio di grande valore simbolico, in cui le donne, che sono state al centro del mio lavoro giornalistico negli anni scorsi, si riscoprono protagoniste».

Contrariamente al suo ultimo libro, che fotografa una società troppo maschilista, tema che ha affrontato a Scrittorincittà…
«Solo virtualmente, purtroppo: spero di tornare presto a vedere il bellissimo centro storico di Cuneo. Mi toccherà scrivere un nuovo libro».