In più occasioni i lettori della Rivista IDEA hanno avuto modo di fare la conoscenza di Beppe Mariano, scrittore saviglianese che si è ritagliato negli anni uno spazio significativo all’interno della produzione poetica italiana, suffragato dai prestigiosi riconoscimenti ottenuti. Con questa intervista proviamo ad andare oltre agli aspetti meramente letterari.
Mariano, quali sono le esperienze della sua vita che l’hanno portata a essere quello che è oggi?
«Ho avuto un’infanzia difficile: oltre alla guerra di quegli anni, mia madre, maestra, si è presto ammalata ed è morta a 39 anni, proprio (destino sarcastico), nei giorni della
Liberazione. Mio padre, ex falegname, prigioniero di guerra, era tornato a casa da poco. Ho trascorso gli anni Cinquanta nell’indigenza, o quasi. Mi ero trasferito a Torino presso la nonna materna, dove ho cominciato gli studi. La povertà non mi ha permesso però di continuarli. Solo più tardi sono riuscito a completarli, prima a Torino poi a Firenze».
E poi?
«A Firenze ero andato a studiare storia dell’arte. Ero là nel 1966 quando c’è stata la grande alluvione. Ero redattore d’una rivista di poesia e collaboravo con una galleria d’arte. Vi ho conseguito il diploma universitario in storia del teatro. Poi sono tornato a Torino, dove grazie al diploma ho potuto collaborare per le recensioni teatrali con La Gazzetta del Popolo, prima e con La Stampa Sera poi. Ma soprattutto scrivevo poesie. Avevo iniziato a sedici anni e non ho più smesso, salvo qualche breve periodo di silenzio “produttivo”. Ho iniziato così l’attività di scrittore».
Quale delle sue numerose opere la rappresenta di più?
«Ho scritto commedie che sono state rappresentate negli anni Settanta e Ottanta. È tuttavia la poesia che maggiormente mi rappresenta. Dalla prima raccolta presentata dallo scrittore cheraschese Clemente Fusero (il solo della provincia, nei miei primi trent’anni, che si sia interessato a me) alle raccolte successive presso editori di sempre maggior rilievo, fino all’antologia completa della mia poesia, edita da Aragno nel 2012, “Il seme di un pensiero (Poesie 1964-2011)”, che mi ha valso premi nazionali tra i quali il “Guido Gozzano”, l’“Ada Negri”, il “Sandro Penna”. L’antologia comprende anche gli apprezzamenti che nel corso degli anni la mia poesia ha ricevuto da parecchi critici letterari tra i quali Giorgio Barberi Squarotti, Elio Gioanola, Sebastiano Vassalli, Giovanna Ioli, Giuseppe Conte, Giovanni Tesio e il cuneese Carlo Luigi Torchio».
Quale riconoscimento le ha fatto più piacere?
«Il riconoscimento che più mi soddisfa è proprio l’ultimo ottenuto: il Premio Internazionale Lerici Pea, la cui premiazione per via della pandemia è stata rimandata alla prossima estate. È probabilmente il premio di poesia più nobile, che è stato vinto da molti dei più importanti poeti del secondo Novecento. Il premio l’ho ottenuto per l’ultima mia raccolta pubblicata presso Mursia: “Il Monviso e il suo rovescio”. Ugualmente sono riconoscente al Presidente della Giuria del Premio Guido Gozzano che mi ha voluto onorare nel 2019 con il Premio alla carriera».
Che cosa rappresenta per lei il teatro?
«Il teatro è alla base della mia formazione. Da giovane ho anche recitato. Ho scritto di teatro per i quotidiani torinesi e per alcune riviste (proprio qualche mese fa ho pubblicato a Torino “Perlustrazioni letterarie e teatrali”, una scelta dei tanti articoli e saggi pubblicati nel corso degli anni). Negli anni Settanta sono stato direttore artistico del teatro Toselli di Cuneo. In quegli anni ho collaborato ad Alba con una compagnia teatrale semi professionista. Al Milanollo di Savigliano ebbe successo una mia rievocazione della poesia di Meo Capra, un poeta dialettale molto amato dal pubblico ma inspiegabilmente ignorato dalle amministrazioni che si sono succedute (ancora oggi non v’è una via intitolata a suo nome)».
Quando ha congiunto il suo amore per l’arte con quello per la poesia?
«Era il 1973 quando ho unito le due cose. Ho spesso sperimentato nuove forme di poesia, e in quell’anno ho prodotto una vera e propria mostra nella quale l’aspetto verbale (poesie scritte col gesso su lavagnette) si coniugava con la fotografia e con la creazione di una personale segnaletica stradale al fine di raccontare una storia del cuneese. Il risultato era una specie di polittico che veniva di volta in volta esposto singolarmente o in mostre collettive. Il mio lavoro artistico piacque a un noto critico e pittore, Albino Galvano, il quale mi seguì fino a che durò la mia attività di poeta visivo. Nel 1982 esposi a Firenze un nuovo lavoro che non mi venne restituito. Ciò mi scoraggiò a continuare. Ma probabilmente avevo esaurito l’interesse per quella sperimentazione poetica».
Come ha fatto a far conciliare il linguaggio teatrale e prosa?
«In origine un mio dramma teatrale, “Il caso Molineri” era piaciuto allo storico della
Letteratura Italiana Giorgio Barberi Squarotti il quale ha voluto pubblicarlo sulla rivista universitaria “Astolfo” che allora dirigeva, scrivendone una bellissima postfazione (la stessa che ora compare dopo la fine del romanzo). Il professore sperava che prima o poi ne facessi un libro e ogni tanto mi sollecitava in tal senso. Poiché il teatro in questi anni sta ricevendo scarsissima attenzione editoriale, mi sono deciso a virare il dramma teatrale in racconto. Il romanzo che ne è derivato, è di fatto un romanzo “teatrale” nel senso che mantiene la sua forma dialogica, avvalendosi per di più delle descrizioni di ambiente e di psicologia dei personaggi».