«Bisogna sempre dare il massimo»

«In Serbia noi ragazzini giocavamo fuori fino a pochi istanti prima che sganciassero le bombe. Quando uscivamo dai rifugi riprendevamo le partite tra le macerie: il calcio era la sola via d’uscita»

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Dalla Serbia, al Monregalese. E ri­torno. Per continuare a inseguire un sogno, quello di vivere il mondo del calcio da professionista, che lo accompagna sin da quando era bambino. Darko Damnjanovic, dopo quindici anni vissuti come protagonista nel calcio nostrano, prima da giocatore, poi da allenatore, torna proprio in questi giorni nel suo paese d’origine, con grandi prospettive.

Damnjanovic, che cosa farà in Serbia?
«L’ipotesi più accreditata è un posto da assistente tecnico nelle giovanili della Stella Ros-sa, il mio primo ed eterno amore. Ma ho anche altre alternative, in affiancamento su panchine di Serie A serba, e pure in una delle rappresentative nazionali giovanili. Inoltre, intendo aprire una mia “academy”, un progetto che al mo­mento nel mio paese non esiste. Nel frattempo studierò per conseguire la licenza Uefa A di allenatore».

Si completa il suo cerchio “calcistico” della sua vita.
«Entrai nelle giovanili della Stella Rossa a cinque anni e mez­zo: ero stato inserito nella rosa di una squadra che rappresentava il top in tutta la Ju­go­slavia, ero orgoglioso. Nel 1991 aveva vinto la Coppa dei Campioni, era una generazione di fenomeni a cui si voleva dare continuità».

Qualche nome?

«Ho avuto il piacere di giocare con gente del calibro di Ale­xan­dar Kolarov, Bosko Jan­kovic, Marko Perovic, Dusan Basta, Dejan Milovanovic, il portiere Vladimir Stojkovic. A livello giovanile abbiamo vinto molto, sia in competizioni nazionali sia in quelle europee. Non ci fermava nessuno».

Poi arrivò la guerra, il Paese e il calcio furono sconvolti. Che ricordi ha?

«Il ricordo più vivido è quello della serata del 24 marzo 1999: ero con mio padre per il suo compleanno, con le valigie pronte per un torneo a Malta con la Stella Rossa. In quel pe­riodo c’era un canale preferenziale aperto con il Barcel­lona, che ci aveva notato l’anno prima: fantasticavamo di andare a giocare là. Avevamo la tv accesa, i notiziari ci avvertirono di un pesante bombar­da­men­to su Belgrado. Durò quattro mesi. Fine dei sogni. Quan­do le sirene preannunciavano l’arrivo delle bombe noi ragazzini rimanevamo fuori a giocare; ci nascondevamo all’ultimo e spes­so, quando uscivamo, tro­­va­vamo i campi distrutti. Con­tinua­vamo a giocare vicino alle macerie. Il calcio era la nostra unica via d’uscita in un paese distrutto».

Nonostante tutto lei ha continuato a giocare lì. Qual era il clima?

«Si giocava in stadi dove c’erano più armi che spettatori. Un paio d’anni prima del mio arrivo in Italia, delle 18 squadre della Serie A serba, 12 hanno avuto il presidente ucciso».

Da qui la sua idea di andarsene?
«In quegli anni avevo un procuratore. Era un mestiere ambìto, anche perché i giocatori serbi erano appetibili sul mercato. I miei erano già partiti per l’Ita­lia, il mio procuratore, oltre che un amico, era per me come un secondo padre. Un giorno gli mi­sero una bomba sotto la mac­china. Saltò in aria, come nei film. Ebbi paura, prima l’Ita­lia era la mia ultima scelta, ma alla fine diventò quella definitiva: ho ritrovato i miei genitori a Ceva, ho trovato lavoro, ho cambiato vita. Senza abbandonare il calcio».

Quando ha avvertito la sua “vocazione” alla panchina?

«Ho sempre seguito con interesse e curiosità il lavoro dei miei “mister”, per me i migliori al mondo. Quando ho capito che la carriera di calciatore non sa­rebbe più progredita ho conseguito subito il patentino Uefa B».

Nel calcio moderno sono sempre di più i grandi giocatori che trovano una squadra di prestigio da allenare fin dal giorno successivo al ritiro. Ma la gavetta?
«È fondamentale. Io ho avuto l’opportunità di entrare nel mondo dilettantistico e la considero una fortuna. In Serbia ero professionista, ma in Italia tra i dilettanti ho imparato tantissimo. Essere allenatore è ben diverso da fare il calciatore: è importante farsi progetti, co­struire, capendo bene come com­portarsi in determinati mo­menti. Certo, vedere carriere così “fulminee” alimenta se non proprio gelosie almeno un po’ di fastidio».

Che realtà troverà quando farà ritorno in patria?

«Temo non sia cambiato molto. Qualche mese fa, durante la prima ondata di Covid, tramite un video rivolto ai miei connazionali, ho lanciato l’allarme sulla pericolosità del virus. Ho avuto problemi con il governo e con il presidente, segno che se vuoi pensare troppo con la tua testa puoi avere grane…».

Cosa insegnerà ai giocatori che allenerà?
«Dal punto di vista tecnico, occorre essere sempre aggiornati, non copiare, liberi di poter trasmettere le proprie idee. Ma bisogna saper trasmettere an­che altro: aver vissuto la guerra mi ha insegnato il valore del sacrificio, del mantenere la testa a posto. Noi siamo diventati uomini presto, forse troppo. Dai miei ragazzi non pretendo altrettanto. Ma di andare sempre avanti a testa alta e dare il massimo, questo sì. Nel calcio come nella vita».