«Fotografando il mondo esprimo me stesso»

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Non esiste un metro per mi­surare la pro­­fondità del­le per­sone. Lo sguardo, la mimica, il parlato possono essere d’aiuto, ma non sono sufficienti. In genere, bisogna andare oltre per toccare l’animo altrui. Con Mauro Talamonti, invece, è decisamente più facile. Basta guardare le sue fotografie, o i suoi “girati”, per capire cosa custodisce dentro. È così che quella che doveva essere un’intervista a uno dei fotografi italiani più apprezzati al mondo si è trasformata in una sorta di viaggio introspettivo, dal quale non si può che uscirne arricchiti.

Mauro Talamonti: fotografo, “vi­deo-maker”, grafico, regista. Qual è la definizione che meglio la rappresenta?

«Aspetti: chiamo il mio psicanalista e mi faccio dare un paio di consigli (ride, nda)! Me lo chiedo tutti i giorni, da quasi 42 anni, ma non penso di averlo ancora compreso…».

E la sua famiglia?
«Nemmeno! Comunque, una “definizione” ce l’ho…».

Avanti, siamo qui per quello!
«Sono una persona che si occupa di comunicazione visiva, attraverso la videografia e la fotografia, e che cerca di raccontare storie, dalla propria prospettiva».

Ovvero?
«Nei miei scatti e nei miei video c’è la mia esperienza di vita: dal cinema alla musica, dall’architettura alla moda, dai reportage all’estero ai tre anni vissuti in Thailandia, fino ad arrivare ai progetti per clienti “top”, come Lavazza, Inter, Jeep e la Honda al Motomondiale».

Insomma, la sua arte non conosce confini…
«Il mio è un tentativo di arrivare da “qualche parte” che non ho ancora capito bene dove sia. In parole semplici, sono un essere umano che prova a fare il meglio di ciò che può».

Direi che ci sta riuscendo alla grande, no?

«Insomma… Ho vissuto anche io tanti momenti “faticosi”, co­me quest’anno, durante il “lockdown”. In ogni caso, non mi lamento. Del resto, siamo tutti in viaggio. Ciò che cambia è la sensibilità che ciascuno ha nei confronti degli altri e del contesto che lo circonda».

Cosa l’ha messa in difficoltà durante l’emergenza Covid?

«Il cambiamento di abitudini. Sembrerà una banalità, ma solitamente ero in giro per il mondo almeno 120 giorni al­l’anno e ritrovarmi bloccato a casa non è stato semplice. Mi sentivo so­speso nell’incertezza e continuavo a farmi domande».

Quali?
«Dove stiamo andando? Stiamo bene? Stiamo male? Come stiamo a casa? Come stiamo con chi ci sta attorno? Abbiamo paura della morte? Come ci relazioniamo con il dolore degli altri? Quando sappiamo dell’altro, quanto ci interessa saperlo? E poi, le poche volte in cui uscivo, vedevo gente disperata a fianco di persone che ridevano tranquillamente, con la mascherina sotto il mento, come se niente fosse».

Come ha affrontato quella situazione?
«Vedevo che i miei colleghi fotografi si impegnavano a documentare la pandemia in prima linea, mentre io ero bloccato, come se non avessi niente da comunicare. Poi, in queste ultime settimane, ho reagito e ho lanciato il progetto “Dietro la maschera”».

Ci dica di più.
«Per mesi i tg ci hanno parlato degli eroi in corsia, senza però mai mostrarcene il volto. Io ho deciso di metterli “a nudo”, di fotografarli, nel cuore dell’ospedale, mentre si spogliano di mascherina, guanti e camice. Ho allestito un piccolo “set” al­l’Amedeo di Savoia di Torino e ho immortalato più di venticinque operatori sanitari, nella loro intimità. Sul profilo Instagram “@doctorsbehindthemask” le loro foto stanno andando “forte”».

Le mancava l’adrenalina del racconto “estremo”, in un contesto pericoloso?

«Viaggiando e, soprattutto, “vi­vendo” le comunità che ho incontrato, ho compreso me stesso. Ho capito che dentro di me campeggiano una zona di pace e una zona di guerra. Quando prevale la seconda, sento il bisogno di andare in “missione”, ossia di esplorare un luogo che non conosco avendo ben chiaro l’obiettivo da raggiungere. È in quei frangenti che mi esprimo al meglio».

Qual è il suo obiettivo?
«Cerco di fotografare l’immagine di me stesso. In ogni fotografia, cerco di esprimere gli aspetti che, negli anni, si sono sedimentati dentro di me. Ovviamente, alcuni contesti aiutano a esprimersi meglio di altri».

Ci faccia un esempio.

«Navigare in India, al seguito dell’esploratore Alex Bellini, sui fiumi più inquinati del mondo, utilizzando imbarcazioni co­struite con materiale di riciclo e documentare la guerra civile ucraina, cercando di co­glie­re le reazioni delle persone comuni, sono state esperienze uniche».

Con che tecnica narra questi episodi?
«Cerco di realizzare fotografie “cinematografiche”, immortalando il soggetto senza alterarne la realtà, ma aggiungendo “poetica” ed “estetica” per rendere “miei” gli scatti».

Le immagini che l’hanno colpita di più.
«In Ucraina, in una bottega di strada, sono riuscito a fotografare “al volo” una prostituta intenta a ricevere denaro da un cliente, mentre al suo fianco si vedono bottiglie vuote di vodka. In India, ho documentato scene ag­ghiaccianti: cadaveri dati alle fiamme a pochi metri dall’acqua dove i bambini stavano pescando, persone pestate a morte con canne di bambù».

Cosa prova di fronte a quelle scene?

«Non sono nessuno e nemmeno ho gli strumenti per giudicare le brutture del mondo, per giudicare cosa sia giusto o sbagliato. In India buttano ogni tipo di rifiuto nei corsi d’acqua con la stessa facilità con cui noi parcheggiamo in terza fila: l’uomo è uguale ovunque, cambia l’espressione della cultura. Detto questo, cerco di pormi in ogni contesto in maniera oggettiva rispetto al soggetto che ho davanti, cercando di interpretarlo e comprendere la storia che gli sta dietro. Non c’è spazio per le emozioni, un po’ come accade al chirurgo in sala operatoria, ma poi quando torno in albergo scoppio a piangere».

E quando torna a casa, invece, c’è qualcuno a consolarla?

«Da qualche anno, fortunatamente, c’è la mia compagna, una santa donna (ride, nda)!».

Non le abbiamo ancora chiesto come si è avvicinato alla fotografia.
«È servito un lungo percorso. Durante la mia adolescenza, piut­tosto ribelle, sognavo di diventare il migliore chitarrista del mondo. Ma non lo ero e allora tentai la carriera… dell’artista. Andò male e così mi iscrissi al Politecnico, dove mi laureai brillantemente. Poi aprii uno studio di grafica a Torino. Ma, ogniqualvolta chiudevo gli occhi per dormire, mi si presentavano immagini su immagini. Le fotografie erano nel mio destino».

Lo saranno ancora?
«Continuerò con le foto più “commerciali” ma anche con i reportage più “estremi”. E sogno un progetto con l’Onu, l’Unicef o Medici Senza Fron­tiere, oltre a un documentario».