Nei giorni passati cadeva la ricorrenza di San Sebastiano, e siamo di nuovo lì, davanti a lui, a implorare: “a peste, fame et bello libera nos, Domine”! Chi lo avrebbe mai immaginato?
Quarant’anni fa, l’unica volta che presi l’influenza, il medico che mi rilasciò la giustificazione per il datore di lavoro, ebbe a dirmi: “Caro Guido, noi medici siamo in apprensione tutti gli anni quando arriva l’influenza, e ci domandiamo angustiati: sarà la volta buona? Aggiunse: “Le pandemie sono cicliche!”
Supposi che si riferisse alla Spagnola e all’Asiatica… Sono passati quarant’anni e “la volta buona” è tornata.
Quel medico era un appassionato di storia e salutandomi ricordò: “Le grandi pandemie hanno fatto la storia!” Per me un’illuminazione.
La grande pandemia in Atene ai tempi di Pericle fu determinante nella guerra del Peloponneso e arrecò una metamorfosi culturale, un “mutamento nelle coscienze”. Emerse “L’idea rivoluzionaria che gli dèi fossero un’invenzione: la razza divina come pura finzione”. Venne meno quel mondo cangiante in cui era indispensabile la meraviglia, dove ogni uomo cercava il divino secondo le proprie possibilità; com’ebbe a notare la scrittrice Marguerite Yourcenar. Per la prima volta affiorò la razionalità. Nello smarrimento generale le classi elitarie non soltanto elaborarono la filosofia, ma cercarono anche “vie nuove” nei riti misterici. L’oligarca Crizia ebbe a definire la credenza negli Dèi: “un’invenzione utile al mantenimento dell’ordine pubblico”.
L’impero romano crollò per “penuria iuventutis” citata da Plinio il Giovane, nascevano pochi bambini, ma soprattutto per le terribili pestilenze che lo svuotarono susseguendosi a ondate per quattro secoli. La prima, quella terribile che si portò via l’imperatore Marco Aurelio: a Roma morivano 5.000 abitanti al giorno. L’ultima, quella ancora peggiore, ai tempi dell’imperatore Giustiniano, che si portò via l’imperatrice Teodora. I barbari del Nord e gli Arabi si trovarono di fronte un guscio vuoto.
Il Medioevo finì con la devastante peste nera del 1348- 1350. Un autentico suggello, che comportò un’altra metamorfosi culturale: l’uomo al centro dell’universo e il ritorno della classicità.
Il Rinascimento, conseguenza della peste nera, finì con devastanti ondate pandemiche tra il 1576 e il 1631. Quest’ultima fu descritta dal Manzoni nei “Promessi sposi”: si suppone che in Italia Settentrionale perirono circa 1.100.000 persone. Le civiltà indie furono spazzate via non tanto dalla brutalità e crudeltà di conquistatori e coloni, ma dai virus del raffreddore, dal morbillo e del vaiolo.
La storia di San Sebastiano è per certi versi esemplare, non fosse altro per l’inedita “fucilazione” con le frecce alla quale sopravvisse, per essere alfine decapitato. Straordinarie le frecce che rimandano a quelle scagliate da Apollo nel campo acheo all’inizio dell’Iliade: frecce pestilenziali. San Sebastiano le riceve sul suo corpo, salvando i Cristiani.
Come mai tanta fama? La tradizione c’informa che San Sebastiano curò un’otite, non un’influenza o la peste.
Quasi quattro secoli dopo la sua morte, nell’anno 680, la città di Roma, piena di magnifici ruderi e vuota di uomini, patì una grave pestilenza. Nella disperazione generale, tra la gente che non sapeva più a che santo appellarsi, un dotto chierico si ricordò del miracolo di Zoe, guarita miracolosamente da un’otite per merito di San Sebastiano. Immediatamente la folla corse in una piccola chiesa extramuros, consacrata al santo, non lontano dalle catacombe sulla Via Appia dove la tradizione voleva che fosse stato sepolto. In quei giorni terribili tutti si aggrappavano a ciò che potevano e invocavano con grande fervore i martiri. Chiunque potesse intercedere a loro favore al cospetto di Dio, sicuramente adirato con il genere umano, costituiva una speranza. Il culto di Apollo, dio del sole che scatenava le epidemie e poi le debellava, era tramontato da molto tempo; ma qualcosa restava nell’inconscio collettivo e qualcuno doveva prenderne il posto.
Dopo l’affollata processione alla tomba del santo martire, la pestilenza misteriosamente finì com’era cominciata. In tal modo San Sebastiano divenne famosissimo, implorato come il più grande dei taumaturghi, difensore dell’umanità dalle malattie infettive. Al santo taumaturgo fu affidato l’incarico di tenere lontano tutti i tipi di contagio, a cominciare dalla temutissima peste, ma anche dal colera, sempre latente, dal vaiolo, dal tifo. Per questo motivo all’ingresso di città e borghi c’è sempre una chiesa o una cappella a lui consacrata: sentinella salvifica. È difficile trovare in Piemonte e Liguria un paese senza la presenza di San Sebastiano. Inizialmente queste chiese furono edificate su templi in rovina di Mercurio e Cerere, notoriamente collocati in prossimità di bivi o quadrivi che, in tal modo, tornarono ad essere luoghi di culto.
Settecento anni dopo venne il flagello della peste nera e sembrò che un santo solo non bastasse a contenerla. In quel lungo lasso di tempo ce ne furono altre di pandemie, come quella che ghermì la famiglia del doge Orsealo II nel 1007, ma quella fu la peggiore. Allora a San Sebastiano in affanno venne affiancato un aiutante: San Rocco, che godette pure lui grande fama. Il santo che negli affreschi mostra volentieri il bubbone pestifero, in compagnia del cane. Nuovamente in tutte le città e i borghi sorsero chiese o cappelle consacrate a San Rocco, sul lato opposto dove c’era quella di San Sebastiano. A questo punto i centri abitati si sentivano più protetti. Essendo dei guardiani, i due santi furono posti scaglionati sul calendario: uno il 20 settembre, l’altro il 16 agosto a meglio coprire l’intero anno.
Poi vennero le pesti del 1577 e del 1631, e allora tutti sembrarono correre verso il mantello protettivo della Madonna della Misericordia. Per la verità, c’era anche un motivo “teologico”: erano arrivati i protestanti che contestavano il ruolo salvifico della Madre di Dio
Un ultimo dettaglio: in origine San Sebastiano era rappresentato come un uomo maturo, a volte anziano con la barba, altre volte sbarbato, con addosso la divisa da ufficiale romano, poiché tale era stato, come rammentava l’agiografia. Poi, lentamente, nell’iconografia subentrò un bel giovane glabro, solitamente biondo dai lineamenti raffinati, quasi effeminati. La metamorfosi fu dovuta a un sogno: nell’VIII secolo, durante un’epidemia, San Sebastiano apparve in Francia al vescovo di Laon nelle sembianze di un efebo. Allora smise gli abiti militari e venne raffigurato vestito di rosso, il colore dei martiri, con le frecce in mano. Poi i pittori si sbizzarrirono e lo svestirono. Ignoro chi fu il primo: seminudo, legato a una colonna, serafico nonostante i dardi che lo trapassano, a volte persino languido.
Nei tempi moderni credevamo che la penicillina, gli antibiotici, l’aspirina… avessero mandato definitivamente in pensione San Sebastiano e invece, eccoci di nuovo qui, a implorare: “a peste, fame et bello libera nos, Domine”!
Articolo a cura di guido Araldo