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«Rintracciamo da dove sono partiti gli orrori»

La studiosa verzuolese Adriana Muncinelli spiega come la Granda visse il dramma della Shoah

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In queste giornate tratteggiate da colori uggiosi, nei pressi di quelli della merla, è giunto e passato ancora una volta il Giorno della Memoria, in cui si ricordano le vittime dell’Olocausto. Molto si è detto di quegli avvenimenti; tanti i film, innumerevoli i libri e le testimonianze dedicate a episodi più o meno noti della Shoah. Nelle righe che seguono, abbiamo cercato di aprire un piccolo squarcio su ciò che avvenne allora al mondo ebraico nella nostra terra, il Cuneese: una zona che ebbe un ruolo tutt’altro che marginale, vista anche la sua posizione geografica di confine. Ne abbiamo chiacchierato con la verzuolese Adriana Muncinelli, per anni docente di storia e filosofia e, soprattutto, studiosa e collaboratrice dell’Istituto Storico della Resistenza di Cuneo dagli anni ’80. Autrice di due testi volti a raccontare le vicende degli ebrei nella Granda, Muncinelli ha dedicato molti anni a ripercorrere i sentieri interrotti delle famiglie ebraiche di casa nostra.

Professoressa Muncinelli, pri­ma di osservare il passato fermiamoci sul presente. Si può parlare ancora oggi di antisemitismo? O, in altri termini, ri­tiene che ci sia stato un aumento di episodi di intolleranza negli ultimi anni?
«Sicuramente il sistema scolastico si è impoverito e si dedica molto meno spazio alla storia. Una volta, però, ero più “socratica”: ritenevo che bastasse far conoscere per rendere migliori le persone. Oggi, invece, penso che la conoscenza sia una condizione necessaria ma non sufficiente».

Ma se non basta il conoscere per evitare il ritorno dell’oscurità, come possiamo impedire che questi eventi diventino so­lamente un’altra pagina un po’ ingiallita della storia? Il nostro è un mondo che ha ancora conosciuto i superstiti di quegli anni, molti di noi hanno avuto in famiglia parenti toccati dalla guerra. Tra qualche anno, per le generazioni che stanno arrivando, non sarà più così.
«Lavorando non sul punto di arrivo, ma su quello di partenza, cercando la continuità nel tempo. Bisogna rintracciare gli elementi da cui quegli orrori sono partiti perché ad Ausch­witz si è giunti a piccoli passi, dopo decenni costellati da nazionalismi e colonialismi giudicati con favore ed entusiasmo. E se noi osserviamo ciò che è successo dopo, negli ultimi 70 anni, il meccanismo di fondo non è stato smontato: tante le stragi, tanti gli orrori. Dobbiamo dunque osservare la strada che stiamo percorrendo oggi e tornare a parlare del diritto di opporsi, di responsabilità personale e partecipazione politica».

Che ne fu, allora, della responsabilità personale? Come andò qui da noi, in provincia di Cuneo?
«Bisogna ricordare, innanzitutto, che, quando si parla di deportazioni, noi fummo la terza provincia italiana per numero di arrestati, un dato naturalmente influenzato dagli arrivi nel campo di Borgo San Dalmazzo di molti ebrei stranieri. Difficile, invece, ricostruire quale fu la reazione emotiva, di pelle, degli uomini del Cu­neese. Siamo gente che di solito non fa esibizioni e per questo, forse, non ci furono manifestazioni virulente a sostegno del­l’antiebraismo, percepita come una cosa romana, distante».

Quanti erano gli ebrei cuneesi?

«In base all’auto-censimento del 1939 imposto dalle leggi razziali ne risultavano 129. Ovviamente, con delle differenze di territorio significative: per fare un esempio, a Saluzzo se ne contavano circa 45, un numero maggiore di quelli di Cuneo. Un elemento che probabilmente caratterizzò la risposta della popolazione».

Ovvero?
«Come dicevo, non si può sapere con certezza quale era il sentimento popolare verso gli ebrei. Tuttavia, nelle aree montane, dove la propaganda e i mezzi di comunicazione erano estremamente poco diffusi, la retorica del fascismo passò di meno; così, le persone della montagna agivano come sentivano, spesso con solidarietà. A differenza invece delle aree cittadine, come Saluzzo, più esposte alle comunicazioni dal centro. Pensiamo a cosa accadde in Valle Gesso, dove arrivarono in molti dalla Francia: quando i tedeschi imposero al comune di Borgo di ordinare agli ebrei di consegnarsi, nella versione definitiva del testo la parola “ebrei” fu sostituita da “stranieri”. Evidentemente non c’era chiarezza su che cosa si intendesse tra la gente delle vallate».

Saluzzo fu in effetti un centro molto importante, dove ancora oggi il ricordo della comunità ebraica è particolarmente vivo. Ha avuto modo, da saluzzese, di incrociare una storia legata a quei fatti?
«Ricordo il mio professore Ugo Levi, che negli anni del regime era stato perseguitato e aveva perso il suo posto di lavoro. Ma allora, nei primi anni ‘60, se ne sapeva poco, lo studio della storia si fermava alla prima guerra mondiale… Era un uomo in cui si percepiva della sofferenza e questo ha fatto scattare in me, forse, un forte senso di curiosità che mi ha accompagnato per tutta la vita».