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Ci vuol fegato ad avere cuore

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Caro Giacomo, sottoscrivo in pieno le sue considerazioni. Come sentenzia lo slogan di una nota acqua minerale, «Si è belli fuori quando si è puliti dentro», ma è altrettanto vero che «Si è mi­gliori dentro se ci si sente meglio fuori».
La sua storia, come la mia ri­flessione, è tutto fuorché un elogio all’apparenza; que­sto dev’essere ben chiaro. In quel che ci ha raccontato, l’epifania, la rivelazione, non è che agli altri sia sembrato che stesse meglio d’aspetto, quanto che lei abbia avuto dimostrazione di come il suo percorso di “uomo in rinascita” potesse palesarsi anche attraverso mes­­saggi esteriori.
Sono convinto, peraltro, che quanto è successo non sia un caso. O, meglio, è fortuito il fatto che sia stato il buono da spendere l’evento che ha fatto scattare la molla, ma la voglia di cambiare era già nell’aria; serviva la scintilla, la piccola opportunità che, co­me diceva Demostene, «è spesso l’inizio di grandi imprese».
E lavorare sull’immagine che si ha di sé, non solo a sessant’anni, è senza dubbio un’impresa. Una di quelle “fe­nomenali”, nel senso letterale della parola, poiché rappresenta «una manifestazione visibile, di­ret­­tamente o indirettamente, di un fatto naturale» (definizione tratta dal dizionario “Hoepli”).
Non c’è nulla di più naturale del cercare la strada che conduce allo star bene sia dentro che fuori. Eppure spesso, forse per poca lungimiranza, ci comportiamo co­me se dovessimo scegliere tra badare alla forma o alla sostanza, tra curare il corpo o lo spirito, tra impegnarsi o divertirsi. Ma la contrapposizione esiste solo ne­gli occhi di chi guarda, vedendo limiti dove esistono soltanto confini. E la storia insegna come i confini non siano nulla più che convenzioni.