Filosofo e storico della biologia, nonché esperto di teoria dell’evoluzione; professore di filosofia delle scienze biologiche presso l’Università degli studi di Padova, autore di più di 230 pubblicazioni scientifiche e anche di un recente romanzo filosofico su fragilità e libertà, intitolato “Finitudine”. Al di là della corposità e varietà del suo “curriculum”, ciò che colpisce di Telmo Pievani è il fatto che riesca a esercitare tali competenze contemporaneamente. E così, nella risposta alla domanda rivolta allo scienziato si intravede anche il punto di vista dell’uomo di lettere e viceversa. Proprio da questa sua dualità parte la chiacchierata con IDEA (che condurrà sino al Consorzio Suonatori Indipendenti e a Dio, tanto per confermare l’ampiezza del raggio d’azione).
Professor Pievani, si considera più un uomo di scienza o uno di lettere?
«Mi considero un ibrido. Recentemente mi hanno definito “un fuorilegge del sapere” e trovo la dicitura calzante; in effetti ho sempre spaziato tra varie discipline (fisica, biologia, filosofia) e ora sono un filosofo che lavora in un Dipartimento di biologia».
In genere tra gli uomini di scienza si riscontra più rispetto per le lettere di quanto ce ne sia tra quelli di lettere per le scienze. È un’impressione che condivide?
«È vero, è un’asimmetria che ho notato spesso. Ho conosciuto molti scienziati appassionati di arte, di letteratura o di filosofia, perché in genere gli uomini di scienza sono molto aperti all’idea che il loro lavoro sia parziale. È più difficile che filosofi o letterati abbiano la stessa passione e lo stesso rispetto per la scienza. Camus era un’eccezione in questo senso. Era un grande intellettuale, laico, libertario, razionale. È abbastanza naturale che avesse un amico carissimo come Monod che era un grande genetista, un grande scienziato. Loro due sono un esempio virtuoso di dialogo. Lamento molto nella filosofia, italiana in particolar modo, l’ignoranza per la scienza e il disinteresse nei suoi confronti. Puoi fare il filosofo ma non puoi ignorare tutto quello che la scienza ti porta; la scienza cambia il mondo: oggi sappiamo quello che dieci anni fa era inimmaginabile, dunque il filosofo non può fare quello che faceva dieci anni fa, è inconcepibile».
Anche perché l’approccio di un filosofo a questioni scientifiche non può essere che un valore aggiunto…
«Assolutamente. A biologia lavoro insieme a genetisti e biotecnologi usando categorie dell’intelligenza del senso critico, la riflessione etica, facendo attenzione alle parole e ai concetti che uso. L’apporto del filosofo arricchisce dal punto di vista qualitativo. La scienza italiana è così forte perché non è solo quantitativa: abbiamo scienziati qualitativi, cioè che si fanno domande giuste, intelligenti, versatili. Ci sono grandi uomini di scienza che hanno attitudine filosofica, come Guido Tonelli, scienziato al Cern di Ginevra: i suoi sono libri di scienza ma lui racconta l’evoluzione dell’universo, del cosmo, il ruolo del caso… è pura filosofia. Al contrario, esistono anche grandi letterati che scrivono di scienza, come Ian mcEwan o, in passato, Italo Calvino e Primo Levi».
La “finitudine”, ovvero il fatto che tutto e tutti abbiano una fine, non rappresenta anche una liberazione? La fine, in fondo, non è anche “una forma di libertà”, parafrasando quello che cantavano i Csi?
«Grandi i Csi, io sono un loro fan! Sono molto amico di Gianni Maroccolo (bassista dei Csi, ndr) e nei miei libri c’è sempre una citazione criptica dei Csi, anche in “Finitudine”. Nella parte conclusiva del libro cerco di mostrare le virtù della finitudine e una, nonostante tutto, è la libertà, la densità che regala alla vita. Saramago ha scritto una cosa bellissima, immaginando che la morte scioperi e ipotizzando le conseguenze; una è proprio questa noia sterminata in cui uno, avendo tutto il tempo davanti a sé, valuta le cose e dice “Vabbè, chi me lo fa fare?”».
In un certo senso il suo ragionamento avvalora la tesi secondo cui la mortalità è un regalo di Dio, poiché senza mortalità l’uomo perderebbe il suo senso.
«Sì, diciamo che è un bel paradosso del quale, per quanto ne sappiamo, l’uomo è l’unico animale a essere cosciente. Sappiamo la nostra finitudine e ci ragioniamo, vogliamo sfidarla comunque, laicamente, cercando di essere ricordati, con il nostro Dna con il lascito delle nostre azioni, con le nostre idee».
Per un professore di filosofia delle scienze biologiche qual è l’elemento più interessante di questa pandemia?
«Sul piano filosofico ce ne sono tanti. Uno è la nostra idea di Natura, grande tema filosofico, su cui molti si sono interrogati. In passato si cercava la causa di una pandemia in un castigo divino, stavolta molti hanno parlato di castigo della Natura, come se la Natura si volesse vendicare, volesse punirci… Questo è un errore filosofico, perché la Natura non ha intenzioni. Il mestiere di noi filosofi è anche questo: far capire che la Natura è amorale, ossia non contiene giudizi morali e che non è altro da noi, ne siamo parte. Grandi filosofi del passato, come Epicuro o Lucrezio, ci hanno insegnato che la Natura è indifferente alle nostre sorti; è importante tenerlo a mente, perché implica anche non chiedere alla Natura quello che non può darci».
Meglio ricordarselo anche per non considerare il vaccino la soluzione alla pandemia.
«Esatto. Il vaccino è una cosa strepitosa sul piano tecnologico e scientifico: se fossi andato dai miei colleghi di Padova due anni fa e gli avessi detto che saremmo stati capaci di fare un vaccino mRna nel giro di 8 mesi mi avrebbero preso per matto. Questo è il lato positivo di questa tragedia e incarna proprio un tipo di ingegno tipico della creatività scientifica; prendere una tecnica che era stata inventata per altro (la cura di alcuni tumori, ndr) e applicarla a un nuovo problema. Il rischio che non dobbiamo correre, però, è vaccinarci tutti, raggiungere l’immunità di gregge, uscirne e quindi dimenticarci delle cause profonde per cui ci siamo ritrovati in questa situazione. Siamo entrati nell’era pandemica, in cui le pandemie diventano molto più frequenti e molto più violente; il vaccino è la risposta all’emergenza, ma la chiave sta nel ridurre le condizioni che rendono possibili le pandemie».