Tommaso Labate, c’è da essere più ottimisti o pessimisti pensando al futuro prossimo dell’Italia?
«Io resto ottimista, anche perché mi rifaccio alla Legge di Murphy rovesciata che caratterizza questo Paese: ogni volta che si arriva sul punto di non ritorno, troviamo le risorse per ripartire. E poi, oggettivamente, stavolta abbiamo tirato fuori dal mazzo, cioè dalla panchina, la migliore delle riserve possibili. L’unica preoccupazione è che quella panchina sia però rimasta vuota».
Si riferisce chiaramente a Draghi. Ma cosa risponde a chi lo paragona a Monti e a ciò che accadde in quell’occasione?
«Rispondo che il professor Monti è un personaggio professionalmente preparatissimo e umanamente dotato di grande simpatia. E comunque era un altro contesto. Non dobbiamo pensare che ci siano analogie. Se crediamo che Draghi sia l’eurocrate che arriva per ripetere frasi come “la ricreazione è finita” oppure “facciamo i compiti”, ci stiamo sbagliando. Draghi baserà la sua “leadership” sul dialogo, come ha già anticipato riaffermando il rispetto dovuto al Parlamento».
Con l’esperienza in ruoli strategici, Draghi sarà quindi la persona giusta per rimettere mano al Recovery Fund e gestire al meglio i soldi dell’Europa?
«Neanche il suo più convinto oppositore potrebbe avere dubbi su questo. Siamo passati dall’eventualità di affidare il problema del Next Generation Eu a una “task force”, alla certezza di passarlo a mani esperte e capaci come quelle di Draghi. Parliamo di un dirigente che è stato direttore generale del Tesoro in un periodo in cui vide passare governi di ogni tipo e si abituò a trattare con la politica. Draghi è di Roma, conosce bene quel mondo e, nel ruolo che aveva ricoperto prima di andare alla guida della Bce, ha messo il sigillo su molte “finanziarie”, alcune delle quali prima ancora di Maastricht: direi che ha ben chiaro il contesto in cui muoversi».
Quali iniziative potrebbe adottare Draghi con urgenza?
«Ovviamente si occuperà subito della gestione del rapporto tra circolazione delle persone e diffusione del virus. A breve, il 15 febbraio, scadranno le limitazioni tra regione e regione e bisognerà essere pronti. Continueremo a seguire un percorso a tappe, ma Draghi ha già definito assieme a Mattarella quali siano le priorità, bisogna vedere come saranno affrontate. Direi che le urgenze sono, nell’ordine, la sconfitta del virus, il Recovery Plan e il blocco dei licenziamenti».
Che cosa pensa di Renzi? Ha agito così per il proprio tornaconto o per una strategia politica?
«Se lo avesse fatto per un tornaconto personale, avrebbe sbagliato calcoli: esce infatti da uno scenario dove avrebbe avuto la possibilità di essere padrone della maggioranza, con un ruolo in un ipotetico Conte-ter. Adesso no, quindi o è vero come dice lui, che non lo ha fatto per un secondo fine, oppure ha sbagliato clamorosamente».
Da addetto ai lavori, che cosa pensa del ruolo della comunicazione in tutto questo periodo contraddistinto dalla pandemia?
«C’è stata l’esigenza di fornire informazioni basilari, ad esempio: fino a che ora uscire e quando non farlo. La comunicazione si è adeguata a questa necessità, peraltro non è accaduto solo in Italia. In Gran Bretagna la regina Elisabetta ha citato il “We’ll meet again” di una canzone di guerra tornata in voga per il Covid, in un momento in cui il premier Boris Johnson sembrava orientato verso un altro modello. Adesso tutti a sottolineare come Draghi non sia presente sui “social”, ma fin qui resta necessaria una comunicazione di base, non si può fare altrimenti. D’accordo, poteva esserci più dibattito attorno all’abuso dei decreti, alla conferenza di Conte usata per attaccare Salvini e Meloni, ma per il resto era più importante sapere se si potevano portare i figli a scuola e questi messaggi non potevano essere affidati alla Gazzetta Ufficiale».
A proposito: le democrazie occidentali hanno ceduto pezzi di libertà al virus?
«Dobbiamo chiederci come sia cambiata la democrazia: è chiaro che in una fase emergenziale non è possibile percorrere la strada della democrazia diretta. Ma è sempre stato così. Faccio l’esempio del paesino di cinquemila abitanti dove accade un delitto particolarmente efferato: se si lasciasse decidere alla collettività, probabilmente, in quel caso avremmo una maggioranza schierata per la pena di morte. Sarebbe un esercizio di democrazia? La pandemia non ha messo a rischio la tenuta democratica che, invece, soffre per la non corretta informazione via web, qualcosa che, come abbiamo visto negli Usa, può portare a conseguenze gravi».
Cambiamo discorso, le piace fare giornalismo alla radio?
«Molto. Nasco come giornalista della carta stampata e poi ho sperimentato la tv, il web, ho anche scritto libri. Ma la radio mi sta insegnando molto: mi ha dato un contatto diretto con le persone, più di ogni altro mezzo. Mi arrivano lettere scritte a mano dagli ascoltatori, qualcosa di incredibile. Grazie alla radio si ha una fotografia del Paese reale, il polso della situazione. E non è un media in competizione con gli altri, è come un’auto ibrida: motore termico e motore elettrico sono separati, ma con il primo puoi ricaricare il secondo».
È cambiata la radio o è cambiata la nostra società?
«È cambiata la politica; in radio conduco una trasmissione su questo argomento che non è più di nicchia, è popolare».
Un po’ come il calcio?
«Esattamente. È accaduta una cosa che ho notato frequentando da oltre dieci anni i bar della Capitale. Prima, entrando per un caffè, eri travolto dai discorsi sulla Lazio e su Totti. Adesso certamente si continua a discutere di Roma-Lazio ma anche di altri derby come ad esempio Salvini-Di Maio».
Però intanto il Covid ha cambiato anche il calcio: sta diventando meno importante?
«Dipende anche dalla tecnologia. Come giornalista politico, un tempo avrei seguito con massima attenzione il discorso di Mattarella per l’incarico del nuovo Governo. Stavolta l’ho fatto dividendo a metà lo schermo della tv: da una parte seguivo Inter-Juve e dall’altra il Presidente».