Il “framasson” era un personaggio misterioso, un po’ mefistofelico, che la tradizione popolare indicava come uomo sapiente, temibile, partecipe a una confraternita occulta, tra incappucciati. Interessante la leggenda antica del “framasson” narrata in Val Pesio, ai piedi della Bisalta, e ripetuta in Val Gesso, all’ombra dell’Argentera.
Quel “framasson” era probabilmente un onesto “compagnon” costruttore di cattedrali, in grado d’erigere chiese che sembravano sfidare la forza di gravità, per come salivano svettanti verso il cielo, simili a eteree montagne di pietra. Viveva a Nizza e un giorno fu chiamato a Cuneo per la necessità di progettare una chiesa: forse una globale ristrutturazione di Santa Maria del Bosco, dove ora c’è Piazza Galimberti.
All’epoca c’erano tre strade che da Nizza raggiungevano Cuneo passando per i colli alpini nella Contea di Tenda. Tutte impervie, ardue, faticose.
Di buon’ora il “framasson” lasciò la bella città in riva al mare in compagnia del suo mulo, e con l’approssimarsi della sera era già in vista dal borgo della Briga. Il giorno dopo ripartì con l’annunciarsi dell’aurora e sostò alla chiesetta di Nostra Signora delle Fontane, dove tutti i viandanti, papalini e no, si fermavano per supplicare la celeste protezione nell’attraversamento delle alte montagne vicine al cielo che mettevano inquietudine, se non paura.
La notte lo sorprese già in Valle Pesio con la meta ancora lontana, dopo che si era lasciato alle spalle il Passo Del Duca e l’insidiosa Conca delle Carsene disseminata di crepacci pericolosi.
Splendeva in cielo una luminosa luna tonda sulla quale il “framasson” faceva affidamento. Era partito aspettando la luna buona e il suo chiarore gl’indicava il cammino, altrimenti impossibile. Ma l’argentea luna nel suo lento cammino cominciò a declinare verso la cima della Bisalta, che all’epoca saliva alta nel cielo simile alla cima aguzza del Monviso. E quando ineluttabilmente tramontò, il cammino si fece nero come la pece.
Il “framasson”, che precedeva il mulo, non sapeva più dove mettere i piedi. Udì l’ululato dei lupi e si sentì perduto. Con il cuore gonfio d’angoscia invocò san Cristoforo, protettore dei viandanti. Supplicò san Bernardo da Mentone, tutore dei temerari che attraversavano le Alpi. Sempre di più la paura prese a stringergli il petto in una tenaglia invisibile. Sentendosi perduto, s’appellò al diavolo. E paff! Eccolo lì!
Belzebù apparve con corna, coda e zampe di caprone; come puzzava di zolfo; s’intravedeva nella notte per il chiarore delle fiamme che si portava appresso.
Gli venne incontro ed esclamò beffardo: «T’häi ciamäme, neh?« (Mi hai chiamato?) «T’häi da-manca ‘d mi, neh?» (Hai bisogno di me?). Da buon poliglotta, parlava anche il piemontese.
Ovvia la proposta: l’anima in cambio del favore richiesto.
«Et faräi rimunté ’a lüna?» (Farai risalire la luna?), domandò il “framasson” frastornato, ma anche curioso e scettico.
«Pa puscibil!» (No! Impossibile!), ribatté Belzebù. «Cuntusme nent d’er bäle! (Non raccontiamoci storie!). Manc Giosuè u l’è sctà bon a fermé u su! (Neppure Giosuè fu in grado di fermare il sole). Lu san ’d-cò er preye ‘d ra sctrà che i’äsctri in cièl e-van per propri cont, senza diau e senza diu! (Lo sanno anche le pietre della strada che gli astri in cielo vanno per proprio conto, senza diavolo e senza Dio)».
«E alura, cume ’t faräi? (E allora, come farai?)».
Lo sollecitò il diavolo: «Ti, intant, mena nent tant er can per ’a curt: firma er papè! (Tu per intanto non menare il cane per l’aia: firma il contratto!»
Il “framasson” annuì: non soltanto per l’affanno, ma anche per curiosità. Voleva proprio vedere come se la sarebbe cavata il diavolo! Ma si lamentò: «Cume e-fäz a firmé, su l’è tüt sckü? (Come faccio a firmare, se è tutto buio?) Appena e-vugrò ’a poncia du näs, e-bitrò a firma! (Appena vedrò la punta del naso, firmerò!)».
Era raro che Belzebù agisse prima della sottoscrizione del patto, ma quella notte fece di necessità virtù. Schioccò le dita e apparvero centinaia; che dico? migliaia di diavoli! Tutti con “pich e pära” (piccone e pala). In breve tempo quella legione di diavoli abbassò la cima montagna e da quel momento la Bisalta restò con tre cime seghettate. La luna tornò sorridente a rischiarare il cammino al “framasson”: quanto bastava per arrivare al riparo sicuro del Pian d’er Gure, dove c’era un capanno con tettoia, pagliericcio, caldo camino e fresca fontana: un approdo sicuro fatto erigere dal saggio abate della Certosa.
A questo punto al “framasson” non restava che sottoscrivere il contratto con il proprio sangue dopo essersi punto un dito. Ma poiché i “framasson” ne sanno una più del diavolo, costruttori di cattedrali che sembravano ingannare le leggi di gravità, si finse analfabeta: invece di segnare il proprio nome, tracciò una croce. Alla vista di quel sacro simbolo i diavoli fuggirono terrorizzati e anche Belzebù si eclissò.
Passarono gli anni, e il “framasson” si ritrovò nella necessità di riattraversare le Alpi ancora una volta per andare a Cuneo, questa volta per erigere la nuova chiesa dei frati francescani. Memore della brutta esperienza precedente, preferì risalire la valle Vesubia fino in cima al colle della Finestra, dove c’era una chiesetta e un rifugio alpino “ante litteram”, gestito dai Templari. Ripartì il giorno dopo, ma gli anni già cominciavano a farsi sentire e complice anche un’avvenente pastorella tentatrice, ancora una volta il buon “framasson” si lasciò sorprendere dal buio. La tonda luna, quasi simile a sole argentato, tramontò troppo in fretta dietro all’alta montagna dell’Argentera, che all’epoca aveva la cima aguzza come il dirimpettaio Matto, in origine Matterhorn: lo stesso nome del piramidale Cervino.
Tutto si ripeté! Ancora una volta inutili le accorate suppliche a san Cristoforo e a san Bernardo da Mentone, per la precisione Menton-Saint-Bernard, che i Valdostani rivendicavamo fosse nato ad Aosta.
Che fare? Richiamare il diavolo? Oh santo cielo, il diavolo si può raggirare una volta, non due! Dopo un brutto ruzzolone, con l’ululato del lupo sempre più vicino, il “framasson” si decise a invocarlo, sentendosi perduto. Ed ecco che il diavolo, appena invocato, riapparve. Grazie a Dio immensamente misericordioso non era Belzebù, ma Belfagor. Belzebù era stato punito per essersi lasciato sfuggire dalle fiamme dell’inferno un’anima dannata, ingannato dalla firma.
Questa volta il dialogo fu un po’ diverso, poiché Belfagor non capiva il piemontese e parlava il provenzale. A ogni modo la proposta non mutò: la firma per arrivare alla meta sano e salvo, in cambio dell’anima. Al momento della firma Belfagor guardava le stelle non la pergamena, per non vedere la croce: non era mica stupido! Il “framasson” sospirò rassegnato, ma prima di firmare implorò: “Gesù, Gèp e Maria purtème in s’ra bòna via!” (Gesù, Giuseppe, Maria conducetemi sulla sicura via!). A queste parole immediatamente Belfagor si dissolse con tutti i suoi diavoletti.
A questo punto il “framosson” arrivò sano e salvo a san Giacomo: nome non casuale che rimanda lontano, al Campo della Stella nelle spagnole Galizie. Ci approdò appena in tempo, mentre la luna tramontava definitivamente. Fu così che da quella notte anche la cima dell’Argentera restò seghettata, come la Bisalta.
Articolo a cura di Guido Araldo