«Lei pretenderà mica di spaventarmi alla mia età? Io dico quello che penso, poi le faccia le sue valutazioni». «Tant’ ’t ëm cuchi nen!» (“tanto non mi prendi”, in piemontese, ndr). Sono due frasi apparentemente slegate che, chi conosce Adelio Panero, non fa fatica a credere siano uscite entrambe dalla sua bocca.
In effetti così è: la prima l’ha pronunciata al cospetto di un docente universitario con cui stava sostenendo un esame. La seconda, invece, è la reazione instintiva al Covid, che lo ha colpito in forma tutt’altro che leggera, visto che sono stati necessari 20 giorni di ricovero all’ospedale di Verduno, di cui 5 con indosso il casco dell’ossigeno.
Due frasi che temporalmente distano tra loro qualche mese e che raccontano, meglio di tante parole, il temperamento dell’uomo. Originario di Veglia di Cherasco, Panero ha vissuto per qualche anno nella “città delle paci”, per poi trasferirsi in frazione San Michele, dove dal 1994 ha sede la torrefazione del Caffè Revello, marchio riportato in auge da Panero insieme a Giuseppe Revello, figlio dell’iniziatore dell’omonima azienda. Un imprenditore che opera in proprio da 43 anni («prima lavoravo al 120 per cento, ora che c’è mio figlio, solo al 70», scherza Panero) e che, a 63 anni compiuti, ha deciso di laurarsi.
Non che servisse, però era necessario. Non serviva perché non c’era un’utilità pratica. Adelio Panero, evidentemente, non fa conto di sfruttare la sua laurea a fine lavorativi, però era necessaria, in quanto indispensabile per chiudere un cerchio, come spiega il diretto interessato.
«Sono stato in collegio a Cherasco dai Somaschi, i quali facevano una specie di “reclutamento” tra i giovani che ritenevano adatti per la loro scuola. Lì ho frequentato le medie e il ginnasio: sono stati 5 anni fondamentali per la mia formazione; poi ho concluso il liceo classico al “Giolitti Gandino” di Bra, e poi non ho potuto continuare, perché i miei erano in campagna con poca terra e non è che si potesse pensare di investire per far studiare un figlio. Dopo il diploma ho iniziato a lavorare, per qualche anno sotto padrone e poi da solo. Sentivo però di aver lasciato qualcosa di incompiuto e quando qualche anno fa un mio amico mi ha prospettato la possibilità di iscrivermi alla laurea triennale, mi sono lanciato. Mi sono iscritto a luglio del 2018; primo esame a settembre e dopo due anni e mezzo ho finito».
Com’è stato tornare sui libri?
«Tutti i corsi che ho seguito mi hanno divertito e interessato. A parte l’inglese, che è stato sempre il mio spauracchio. Adesso non scrivo nemmeno più ok, ma “va bin”, perché per l’inglese ho proprio un rifiuto. Ho preso 30 in storia dell’arte: ho scoperto che mi piaceva da matti, ma non avevo mai studiato pittura e scultura».
Quale la maggiore difficoltà dal punto di vista tecnico?
«La memoria non è più tanto allenata a tenere in testa le nozioni, anche se sei uno che legge. Però l’allenamento mnemonico aiuta tanto, per cui con il tempo è andata sempre meglio. Un’altra difficoltà è stata il parlare in pubblico. Un po’ mi ero sciolto facendo il presidente dell’Us Cheraschese (prima nel 1983-1984 quando avevo 28 anni e Dante Aimo volle che ricoprissi quel ruolo e poi nel 1998-1999 con allenatore Momo Dogliani, quando la squadra ottenne la promozione in Eccellenza, ndr), ma erano 20 anni che non parlavo più davanti a delle persone. Anche in questo caso, andando avanti si migliora nell’eloquio».
Dove ha trovato il tempo per lo studio?
«I sabati e le domeniche in particolare, ma erano tutte materie che mi piacevano per cui è stato piacevole. Poi devo ringraziare mia moglie, Maria Grazia che è stata una magnifica “sparring partner”: nelle imminenze di ogni esame mi interrogava. Un “grazie” va rivolto anche a miei figli Raffaella e Alessandro, a mia nipote Francesca e ai miei dipendenti Carlo e Marco, che mi hanno dato una mano a livello informatico».
Quando mancava poco alla fine, proprio prima dell’esame dell’odiato inglese, ha contratto il Covid, con conseguenze decisamente serie…
«Sono stato per quasi 20 giorni in ospedale. Per 5, anche sotto il casco. Io non mi sono accorto più di tanto della gravità della situazione, perché, non venendo bene ossigenato il cervello, ho ricordi vaghi dei primi giorni. La parte più impegnativa è stato mantenere il casco, per via del rumore bestiale e del dolore dietro alla testa. Una volta guarito ho cercato di farmi dimettere il prima possibile perché a inizio dicembre avrei dovuto sostenere ultimo esame di inglese e il 27 novembre ero ancora in ospedale. Quando sono stato promosso, ho mandato un messaggio al personale sanitario perché facevano il tifo. Non posso che ringraziarli ancora una volta per le cure e la vicinanza che mi hanno dimostrato in quei giorni».
Ora punta alla specialistica?
«Meglio che mi fermi, prima di entrare nell’età della demenza senile. In realtà ho anche altre cose in ballo, e prima della specialistica mi piacerebbe imparare a suonare».
Familiari e vicini di casa si considerino avvisati…