Scrivere di montagna richiede uno sguardo particolarmente attento e una penna capace di raccontare quello che gli altri vedono, ma spesso non sanno cogliere nella sua essenza. Sensazioni, prima ancora che dettagli materiali.
Una qualità che in più occasioni ha dimostrato di avere il monregalese Gabriele Gallo, giornalista “freelance” e autore di diversi libri dedicati all’ambiente montano, sviscerato da più prospettive, cui si aggiunge il recente “Ritratti alpini-Racconti di un anno in montagna.
Gabriele, come è giunto a scrivere di montagna?
«Sono arrivato abbastanza tardi alla lettura e alla scrittura, anche per l’effetto di avere una madre professoressa di italiano. Solo a oltre 20 anni d’età ho cominciato a “leggicchiare” e “scribacchiare”, per scherzo. Nel 2012 partecipando a un concorso dell’Università di Torino nel quale si chiedeva di descrivere un luogo del cuore della Regione ho parlato del Pian delle Gorre, in valle Pesio. Ho poi fatto leggere il mio articolo ad amici e familiari e più d’uno mi ha detto di essersi ritrovato nelle mie descrizioni o di esserne rimasto perlomeno incuriosito. Da questo spunto è nata la mia prima trilogia, quella del “Rifugiarsi nella descrizione di un attimo”. Mi sono detto: “perché non provare a descrivere quel che sento quando raggiungo un rifugio? Il risultato sono guide escursionistiche, con 10 righe per ogni rifugio di pura narrativa, cui si aggiunge una parte divulgativa e documentaristica.
“L’altra montagna”, invece, è un piccolo romanzo breve che in realtà narra le problematiche della vita in quota per dare voce ai tanti che si lamentavano del conflitto tra uomo di montagna e uomo di pianura. “Il respiro dell’abbandono” è l’unico tra i miei libri a non riguardare la montagna. Narra di una discoteca abbandonata di Magliano d’Alpi, metafora del tempo che passa».
E poi è arrivato “Ritratti alpini” che usa un registro del tutto particolare…
«Un paio d’anni fa ho aperto una pagina Facebook che si chiama “Le Alpi di Cuneo” che è anche un portale, in cui saltuariamente inserisco foto, storielle, considerazioni. Nel novembre 2019 mi sono imbattuto in una foto molto bella di Ferrere di Argentera e cercando negli archivi dei giornali locali ho trovato un’intervista a Teresina, l’ultima abitante in inverno della frazione che raccontava il suo trasferimento nella casa del figlio per il periodo freddo. Ho romanzato la storia e ho pubblicato foto e testo. Il post ha avuto un’eco ampia, ben al di là della media dei numeri raggiunti dalla pagina. Sicché mi sono detto che sarebbe stato stimolante raccontare quanto è successo nella storia alpina cercando notizie un po’ interessanti e romanzandole. Ne è venuto fuori una fotografia della quotidianità alpina di un tempo. È un esperimento un po’ originale, che sembra piacere».
Anche l’idea di organizzarlo per mese e non per anno è piuttosto particolare…
«Inizialmente ho pensato di partire dalla fine dell’800 e arrivare al secondo dopoguerra, per dare conto di un’evoluzione eventuale della montagna, evidenziare quali erano i problemi nella fine dell’800 e quali quelli del 1960. A dire il vero, non è che le due realtà fossero così dissimili: non risultavano due mondi diversissimi, quindi, parlando con l’editore ci siamo detti di restituire una fotografia, suddivisa per mese, della vita in montagna. L’obiettivo che ci siamo dati era di far emergere il rapporto tra uomo e ambiente, il pendolo dell’anno e delle stagioni come denominatore comune».
Un denominatore comune è anche il fatto che la montagna sia faticosa, da gennaio a dicembre
«Sì, la montagna è molto faticosa e metterlo in evidenza serve anche un po’ a sfatare il classico “si stava meglio quando si stava peggio”. C’è una mitizzazione del passato. Circa la montagna spesso ho sentito dire che “una volta c’era attenzione”. Era semplice sopravvivenza, esattamente come i muretti a secco sono nati per esigenza, non come scelta architettonica ponderata».