Sul fatto che “l’incertezza” sia la parola chiave per cogliere la personalità di Lóránd Hegyi vi sono pochi dubbi. Non è solo il ricorrere del termine nel titolo della sua ultima opera, di prossima uscita, e per il senso che Hegyi ne dà in questa nostra chiacchierata in cui l’arte e, più in generale, la cultura, diventa mezzo per cogliere le sfumature della realtà (incerta, per l’appunto); ma è osservando la persona e la sua vita, nomade e giramondo, che quella parola acquista un significato pregnante e diventa la cifra per ricostruire una vita dove il bello ha sempre fatto da cerniera tra l’uomo e la sua riflessione sull’esistere. Hegyi, nel parlare (e nel suo modo di essere, così sinceramente e naturalmente colto), vola alto: con il suo italiano in cui è ancora percepibile l’Ungheria da cui il critico proviene, in un misto di termini inglesi e francesi, basta poco, un accenno o uno spunto, per aprire spazi di riflessione in cui è chiaro che il racconto di un’opera diventa il racconto di un mondo, del senso della nostra civiltà e del nostro rapporto con lo spazio e il tempo. Lóránd Hegyi, d’altra parte, ha il “physique du rôle” per poterselo permettere: il suo è uno di quei “curriculum” che parla da sé e che sarebbe tedioso elencare. Basti ricordare, per ora, le sue esperienze nei musei di mezzo mondo, la direzione, negli anni, del Ludwig Museum di Vienna, del Palazzo delle Arti di Napoli e di quello di Arte Moderna e Contemporanea di Saint-Étienne (attualmente, tra le altre cose, si occupa del Parkview Museum di
Singapore); le mostre da lui curate; le pubblicazioni; la docenza all’Università di Budapest, nel suo paese. In mezzo a tutto questo, con un gusto per la sorpresa non indifferente, c’è stato il tempo di arrivare a scoprire i “confini dell’impero” e di ritrovarsi a vivere, da diversi anni, a Saluzzo, «un posto dove ci si sente protetti».
Professor Hegyi, che cos’è dunque questa categoria dell’incertezza di cui parla?
«Torniamo un po’ indietro. Quando è caduto il Muro di Berlino ed è finita l’Unione Sovietica c’è stata la sensazione che il mondo, per la prima volta, cominciasse ad andare nella stessa direzione: c’era l’idea che la democrazia e il progresso sarebbero arrivati ovunque, anche in quei luoghi dove la cortina di ferro della guerra fredda era calata con più pesantezza e che il futuro, per molti paesi, sarebbe stato luminoso. In senso più ampio, si era portati a pensare a un domani generalmente migliore (dal punto di vista sociale, economico e politico) e che fossimo giunti, come si diceva all’epoca, alla “fine della storia”. Naturalmente, si trattava di un illusione presto smentita dai tanti avvenimenti: non si era tenuto conto, per esempio, che un pezzo del mondo arabo era rimasto fuori da quella trasformazione. Ed ecco che allora la caduta delle Torri Gemelle diventa il simbolo, in mezzo ad altri, del tramonto di quel pensiero e dell’arrivo di una nuova stagione di instabilità, in cui oggi ci troviamo in maniera così evidente. Rapporti sociali liquidi, una realtà confusa, crisi continue: un mondo incerto».
E l’arte, in questo spaccato, dove si era collocata?
«Guardiamo all’arte dei primi anni 2000: era ancora ben presente l’idea di vivere in un mondo in crescita, quasi come se, usando un termine economico, fossimo all’interno di una bolla che non si sarebbe mai esaurita. In questo quadro di complessivo successo economico, qualcuno, però, ha colto qualcos’altro: un disorientamento di fondo, i sintomi dell’arrivo di una nuova epoca dominata dal dubbio. Questo è ciò che, a mio parere, va evidenziato: la capacità dell’arte di trovare e leggere le inquietudini».
Se capisco bene, allora, l’arte non è solo una rappresentazione del reale.
«L’arte non è uno specchio. Al contrario, cerca quello che viaggia nella stiva delle navi, i segnali di disturbo della realtà: l’arte cerca l’angoscia».
E in questa sua ricerca è in grado di cambiare l’esistente? Detta in altri termini: l’arte si limita a osservare o interviene ed è capace di modificare il mondo?
«Io non credo che l’arte possa cambiare la società, anche se molti artisti pensano di poterlo fare; quel tipo di arte che si propone di indirizzare il pubblico solitamente finisce col diventare mera propaganda. No, penso più a un processo di sensibilizzazione, a un viaggio in profondità capace di aprire gli occhi e avere una funzione liberatrice in tutti gli aspetti dell’esistere. In un certo senso, l’arte non serve a niente: a patto, naturalmente, che quel niente assorba tutte le possibilità e faccia dell’arte una chiave di lettura in grado di cogliere le tante forme del mondo».
A sentirla parlare di “viaggio”, viene da chiedersi quale sia stato il suo. E quali strane biforcazioni abbia preso per farla arrivare fino qui, a Saluzzo.
«Per quarant’anni il futuro non mi è mai interessato. La mia testa era libera è così sono stato ovunque, lavorando tra Budapest, Vienna, Napoli, Valencia, Saint-Étienne: in questo senso, mi sento profondamente europeo. Poi, più di dieci anni fa, sono arrivato qui. Cercavo un posto che mi piacesse e a Saluzzo, semplicemente, ho trovato quell’umanità e quella quotidianità che apprezzo, anche grazie alla conoscenza del mio amico saluzzese, l’artista Ugo Giletta. Amavo, in generale, l’Italia e inizialmente avevo pensato a Roma: questa cittadina però, così isolata, con le sue montagne a farle da scudo ma perfettamente al centro tra il nord e il sud dell’Europa, mi ha dato quella stabilità che forse prima non avevo mai avuto».