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«Con la musica lotto contro la superficialità»

Nel suo ultimo libro il maestro Paolo Paglia compie un viaggio introspettivo in cerca di “consapevolezza”

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Dare un senso alla propria esistenza è difficile quanto comprendere la mu­­­­­sica che, di fatto, “vive” solo perché, contestualmente, esiste il silenzio. I suoni, le parole e, certamente, anche le note sono una presa di consapevolezza o, meglio ancora, una presa di coscienza che, am­pliando il raggio d’azione, aiuta ad affrontare la vita come essere umani “coscienti” e “consapevoli”. In questa sorta di cammino a ostacoli, che è appunto la vita, è dunque im­portante interrogarsi sui “suo­ni” che ci circondano. Una missione difficile da compiere in solitaria, un po’ come i viaggi ultraterreni di Dante, che sarebbero risultati ir­realizzabili senza la preziosa guida di Virgilio, Bea­trice e San Ber­nardo. È il prezioso aiuto che, con le dovute proporzioni, cerca di assicurare il maestro Paolo Paglia, musicista, compositore e direttore d’orchestra albese. E questa vol­ta lo fa con una nuova fatica letteraria: “Suoni, pa­role, silenzi; la musica tra spirito e tradizione” (Algra Editore, 2020).

Maestro Paglia, ha scelto le parole scritte, e non le note, per raccontare le sue emozioni…

«La parola è forse lo strumento più potente che l’essere umano ha a disposizione per condividere pensiero e sentimenti. La parola si insinua come un tarlo, del resto, tutto è iniziato dal “verbo”, dalla “parola”, che poi altro non è che… un suono».

Facile per lei che “vive” di mu­sica mettere al centro i suoni…

«Potrò apparire anacronistico ma in realtà, prima di tutto, c’è il silenzio: finché non si ha consapevolezza del silenzio è im­possibile comprendere i suoni e, più in generale, tutto ciò che ci sta intorno. Insomma, per co­municare qualsiasi cosa bisogna partire da qui».

Lei, da “costruttore” di suoni, avrà ben chiaro il significato del si­lenzio e di cosa gli “ruota” attorno. È co­sì?

«So soltanto di es­se­re un uomo in cam­­mino, diretto ver­­­­so un obiettivo che, probabilmente, non riuscirò mai a ragg­iungere…».

Perché?
«Perché una vita terrena non basta! (ride, nda)».

A cosa tende lei?
«Io credo nell’arte, da intendersi come un mezzo con cui ciascuno comunica le proprie esperienze. Con la musica, esprimo emozioni e sensazioni. E poi do spazio alle intuizioni, studio, approfondisco e, soprattutto, non smetto di farmi domande, di pormi dei “perché”».

Scusi il gioco di parole, ma “perché” lo fa?
«Per tenermi alla larga dall’appiattimento dilagante nella no­stra società. Se smettessimo di “scrivere” note o di lasciare “pennellate” sulla tavolozza, perderemmo il desiderio di sognare e di condividere le emozioni, la cultura, l’arte. Non avremmo più consapevolezza né del silenzio né tantomeno dei suoni. Non saremmo più consci del fatto che viviamo in un “universo”, che siamo parte di un “creato” nei confronti del quale non dobbiamo mai smettere di essere rispettosi».

La pandemia, però, rischia di scoraggiare…
«È vero. Tante cose sono difficilmente comprensibili. Tutta­via, questo momento può essere vissuto come un’occasione per proseguire il nostro personale viaggio introspettivo e per cercare di scoprire che cosa risuoni realmente in noi. Per­ché solo salvando e difendendo la nostra anima possiamo pensare di migliorare il mondo in cui viviamo».