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La dignità restituita

Il campione di marcia, Alex Schwazer si è battuto per anni contro una squalifica per doping ritenuta ingiusta, adesso i Giudici gli danno ragione e sogna le Olimpiadi. «Ma vale di più aver dimostrato l’innocenza, non potevo vivere con un marchio infame»

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Alex Schwazer conosce il sacrificio e la solitudine, l’importanza di resistere quando la stanchezza t’assale, la libertà d’un traguardo tagliato allo stremo, la meraviglia di un sorriso su una maschera di sofferenza. Alex Schwazer ha vinto ancora, un oro più prezioso di quello olimpico a Pechino, non dopo ore di tensione agonistica, di sfida con altri campioni e con se stesso, ma anni di rabbia e di amarezza, di notti senza sonno, di lotta tenace: non una medaglia da appendere, ma una verità da urlare, una dignità da riavere, un incubo da scacciare. Alex Schwazer era tornato a correre dopo aver pagato un debito con la coscienza e con lo sport, squalificato per doping, travolta anche Carolina Costner, fatina del ghiaccio, allora sua fidanzata accusata di averlo coperto.
Alex Schwazer s’è allenato duro, scegliendo la trasparenza per domare il pregiudizio, e s’è ripreso il mondo vincendo. Il mondo crolla, però, quando emerge una nuova positività. Si ribella, giura innocenza, definisce subito false e mostruose le accuse, denuncia incongruenze nei test, s’immerge in una battaglia legale per rispetto verso se stesso e la verità. Emergono tracce di manipolazioni nei campioni di urina, dubbi sulle provette, le perizie si incrociano e le udienze si sommano: la giustizia sportiva condanna ancora, cancella titoli e sogni, lui si batte davanti a quella ordinaria, a volte si sente solo e respira il sospetto, sfiora la disperazione però non molla come durante la marcia l’energia scivola. E alla fine alza idealmente le braccia al cielo, indossa il mantello tricolore come nelle foto più belle, perché il Tribunale di Bolzano (storia di pochissimi giorni fa) dispone l’archiviazione del procedimento per “non aver commesso il fatto”, giudicando i campioni “alterati allo scopo di farli risultare positivi e dunque di ottenere la squalifica e il discredito dell’atleta come pure del suo allenatore, Sandro Donati”. Quest’ultimo, da sempre, paladino della lotta al doping.
«È la mia vittoria più bella, più di Pechino», il commento di Schwazer, «ma non ho fatto tutto ciò per tornare a marciare. Sogno le Olimpiadi, ma quello è il 10 per cento: la molla era dimostrare la mia innocenza perché dopo aver giustamente pagato le colpe per il doping nel 2012 ci avevo messo la faccia per il mio ritorno da pulito. Nel 2016 sapevo di essere vittima di una colossale ingiustizia, ma c’era una sentenza contraria e la gente si fermava lì, anche se il caso presentava dubbi e incongruenze. Cancellare quella macchia era il mio obiettivo, sarebbe stato insopportabile avere addosso un marchio così infame per il resto della vita».
La prospettiva della giustizia sportiva per adesso non cambia, addirittura la Wada si definisce inorridita, ribadisce che le prove erano schiaccianti e ritiene che il giudice abbia preso in considerazione teorie infondate, ma è un dato che oggi, nel cuore di un ragazzo ch’era distrutto, che aveva trovato la forza di rinascere dopo un errore e s’era ritrovato scaraventato all’inferno, c’è la gioia di una verità urlata alla luna e adesso condivisa, cristallizzata dalla giustizia ordinaria. Nessuno potrà ripagarlo delle umiliazioni subite, guarirgli ferite profonde, riannodare il tempo per offrirgli la possibilità di correre gare dalle quali è stato escluso. Però gli è stata restituita la dignità, la cosa che più conta, e adesso sarebbe bello restituirgli il sogno dei Giochi di Tokyo: sulla torta di cioccolato preparata dalla moglie Kathrin per festeggiare, c’erano i cinque cerchi olimpici disegnati con lo zucchero.

BaNNER
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