Samuel, sabato 27 febbraio, alle 21, andrà in scena, via “streaming”, “L’Ultimo concerto”: suonerà per la musica “live” che non c’è più?
«Stiamo parlando di centinaia e centinaia di addetti ai lavori fermi da più di un anno, a parte un piccolo spazio riaperto la scorsa estate. È doveroso fare qualcosa, perché la musica generalmente viene vista come un gioco, ma è anche un vero lavoro che dà anche occupazione e si estende a tutto l’indotto. Questo concerto è come un urlo, un grido d’allarme. È un “non-concerto”, in realtà, ma serve a mettere in primo piano proprio le persone che operano in questo ambiente e che fin qui hanno ricevuto davvero pochi aiuti».
Come si può superare l’emergenza e ripartire con nuove prospettive, anche per chi fa musica?
«Con più attenzione, sperando di tornare presto alla normalità, cioè alla vita. È importante reagire e si devono ripensare un po’ tutti i campi lavorativi, non solo quelli della musica e del mondo artistico. Chi riesce ad adattarsi alle novità potrà avere benefici. Però deve sempre scattare una molla, non tutti purtroppo riusciranno a trovare una soluzione».
La prima chiusura, ormai un anno fa, aveva cambiato improvvisamente le abitudini. Molti creativi avevano confessato di non saper trovare ispirazione da quel vuoto improvviso. È stato così anche per lei?
«Al contrario, a me il primo “lockdown” ha trasmesso tantissima energia creativa. Io sono uno che reagisce subito, in quel caso c’era un problema gigantesco da affrontare immediatamente. Fuori si era fermato il mondo, io me ne stavo forzatamente chiuso in studio, però incentivato a farlo, legittimato a trascorrere ore e ore di lavoro creativo. E così è nata l’idea di “Brigata Bianca”».
Un disco nuovamente solista: questa attività ormai procede di pari passo con quella dei Subsonica?
«Da sempre sperimentiamo spazi personali all’interno del gruppo, che ormai è diventato grande e farne parte è un compito impegnativo anche se gratificante. A volte senti il bisogno di toglierti un peso, per ritrovare una parte di te che rischia di perdersi all’interno di quegli schemi. Ognuno poi torna portando quelle nuove conoscenze all’interno del gruppo, dove trovano magicamente completezza. Proprio questo è il segreto della longevità dei Subsonica».
La vostra prima scena musicale era quella di gruppi come i Bluvertigo. Oggi è cambiato tutto, eppure voi siete ancora in prima fila. Come ci si sente?
«Da quando abbiamo iniziato noi, la scena musicale è cambiata non una volta, ma almeno tre o quattro volte… Però, quella attuale la sento quasi più vicina alla mia musica, la più interessante. Mi viene naturale mescolare la mia creatività con quella di giovani come Colapesce, Fulminacci, Johnny Marsiglia o Willie Peyote. Rivedo in loro il me stesso degli anni ’90 e 2000».
Assieme agli sconvolgimenti che tutti abbiamo vissuto, la musica è cambiata in meglio o in peggio?
«La musica cambia sempre, è come un mare in tempesta. E soprattutto è diversa oggi la fruizione stessa della musica, è diventata da fisica a immateriale. Inoltre, se una volta ci rivolgevamo a un pubblico che poteva avere dai 25 ai trenta, ai quarant’anni, oggi questo margine si è ridotto tantissimo. Ci si adatta quindi a questa realtà. Serve una nuova attitudine per la nuova musica. Quelli della mia generazione sono ancora legati all’idea degli Lp, ora invece parliamo di “compilation” o di “playlist”. Se oggi quindici tracce in un disco sono un qualcosa di strano, per noi erano la normalità». Nonostante tutto, i Subsonica restano sull’onda: come lo spiega?
«Il gruppo rappresenta la necessità di andare avanti, qualcosa che resiste nonostante noi stessi e i nostri esperimenti solistici. Il gruppo è un luogo dove poi ritroviamo sempre il senso di questa ricchezza. Non è facile mettere insieme cinque differenti caratteri musicali e creare un racconto comune. La difficoltà non sta tanto nel realizzare musica, quanto nel riuscire prima di tutto a coordinare la voglia di primeggiare che ognuno di noi ha».
Sullo sfondo, un altro riferimento costante: Torino. Il vostro legame con la città è immutato?
«Il luogo dove nasci e dove cresci rimane per sempre un luogo al quale sei legato, come un’immagine che ti porti tatuata addosso, un inchiostro che ti rimane dentro. Eppure, come Subsonica abbiamo girato tante città, non ci siamo mai fermati. Io ho vissuto tra Roma, Palermo e ora sono nell’Est dell’Italia. Spostarsi aiuta a definire la propria identità, impari a riconoscerti, sapendo da dove sei partito».