Cuneo, sino all’età dell’Università; poi Torino, per il corso di laurea in ingegneria aerospaziale presso il Politecnico; quindi qualche esperienza all’estero, prima di fare ritorno a in Piemonte e lavorare presso l’industria aeronautica e aerospaziale Argotec. È pressappoco questa la traiettoria che ha caratterizzato sinora il percorso professionale di Chiara Piacenza, ingegnere aerospaziale di 28 anni, la quale domenica 21 febbraio ha fatto parte dei 12 “speaker” chiamati a intervenire dal prestigioso palco del “TedxTorino” all’interno del ciclo di conferenze dal titolo “Life on Mars”.
«La sfida dello spazio era quella che più risuonava in me», commenta Chiara nello spiegare la sua scelta di dedicarsi all’ingegneria aerospaziale. «Il mio desiderio è spostare un po’ più in là il confine del possibile, grazie a una tecnologia che ho contribuito a creare. Io sono un “project engineer”: mi occupo di progetti che riguardano gli astronauti e la stazione spaziale internazionale e di altri programmi inerenti alle comunicazioni satellitari: una delle grosse sfide da affrontare per poter stazionare sulla Luna e su Marte è proprio legata a questo ambito».
Ha parlato di soggiornare sulla Luna. È un’ipotesi all’ordine del giorno?
«Nei “piani” delle grandi agenzie spaziali c’è il progetto di tornare sulla Luna in maniera stabile; prima stando in orbita intorno alla Luna, poi facendo base su di essa, con persone che trascorreranno mesi là. Con questi presupposti è necessario un canale di comunicazione più efficace della semplice radio che si usa adesso».
Da esperta del settore, come ha vissuto l’atterraggio della sonda della Nasa su Marte?
«Con grande attesa, come tutti quanti, e con grande orgoglio. Ogni raggiungimento, anche se fatto dalla Nasa è un traguardo tagliato da tutti quanti, perché quello che verrà scoperto su Marte sarà riportato indietro sotto forma di campioni, cosa che mai accaduta prima. Una missione di questo tipo permette di testare nuove tecnologie, sdoganandole per le spedizioni successive. È come se avesse fatto fare un “level up” (salire di livello, ndr) a tutte le missioni future, anche nostre».
Il suo intervento all’interno della conferenza di “TedxTorino” su cosa è incentrato?
«Su come lo spazio, benché sembri un ambiente per gli addetti ai lavori, si stia aprendo sempre di più a nuovi soggetti, siano essere aziende che non operano nel settore spaziale, siano persone che hanno mai pensato di poter partecipare a progetti di tale natura e invece possono farlo eccome, perché lo spazio non è un ambiente solo per ingegneri… Ci sono molte professionalità che partecipano a questo settore e che la gente non conosce, a partire dalla comunicazione, il marketing e il diritto, per esempio».
Occuparsi di entità così “macro” come lo spazio in un momento in cui i problemi arrivano dal così “micro” come un virus, la induce a qualche considerazione in particolare?
«L’esperienza che stiamo vivendo ha portato a relativizzare quello che si sta facendo. Forse questa pandemia ci ha insegnato anche ad attaccarci a ciò che più ci dà un senso… Il poter pensare in prospettiva e sognare qualcosa che non c’è ancora, in altri termini: poter pensare al futuro, è diventato ancora più importante. Chiaramente noi lavoriamo sempre in prospettiva, quindi anche quando le cose vanno bene, stiamo già pensando al futuro. Per questo, forse, sento ancora più forte il peso di portare avanti questi progetti in un momento in cui appare più complicato perché è la vita di tutti i giorni ad essere difficile».
Ogni tanto si sente dire da qualcuno: “Con tutti i problemi che abbiamo dobbiamo pensare allo spazio?”. Come si replica a tale obiezione?
«Spiegando che quello che si studia nello spazio trova applicazioni anche per il nostro quotidiano. Tante malattie sono state studiate in microgravità: il cancro, l’Azheimer, il Parkinson… Pare che in microgravità certe patologie possano essere trattare in maniera più efficace, perché le cellule reagiscono in maniera diversa. Poi ci sono tanti oggetti di uso quotidiano che sono il risultato di ricerche fatte in ambito aerospaziale, dagli smartphone al Gps».
Come è la vita di un ingegnere aerospaziale fuori dal lavoro? Tutta molto ben definita?
“Quello dell’ingegnere come una persona inquadrata è un mito da sfatare, secondo me. Ho incontrato ingegneri incredibilmente creativi e artisti incredibilmente inquadrati. Ognuno ha le proprie caratteristiche e le mettiamo al servizio quello che facciamo».
Che obiettivo lavorativo si pone?
«Noi lavoriamo sempre pensando che prima o poi vedremo accadere qualcosa di straordinario. Io spero di essere una delle persone che contribuirà alla realizzazione della prima base sulla Luna e alla costruzione dei satelliti che ci metteranno in comunicazione con gli astronauti».
Da un certo punto di vista, si può dire che voi scienziati siete più sognatori di tutti…
«Sì, è vero. Crediamo in determinati obiettivi prima che la gente ci creda, per poi dimostrare che avevamo ragione».