«Agli altri bimbi ha già spiegato: sono nato così»

Il cuneese Jacopo Giubergia, 3 anni, e la storia della sua manina raccontata da mamma Nadia

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La perfezione non solo non esiste, ma nemmeno serve. Sapersi adeguare senza rassegnarsi è il modo più efficace per dimostrarsi perfetto; quello che ti fa sentire “adatto”, a prescindere dalle condizioni di partenza. Può apparire un discorso di pura teoria, ma diventa realtà se fa da premessa a storie come quella di Jacopo Giubergia e della sua famiglia. Jacopo è un bambino di Cuneo che ha da poco compiuto tre anni, nato senza la manina sinistra. Da Natale ha una protesi mioelettrica con cui potrà fare praticamente tutto ciò che fanno i suoi coetanei. Magari non nello stesso modo, ma con la stessa consapevolezza di poter essere al timone della propria vita. Con la madre, Nadia Ghibaudo, proviamo a ripercorrere questi primi tre anni pieni di sfide superate.

Nadia, quando avete saputo del­l’a­genesia alla mano di Jacopo?
«Al momento del parto. Non c’è stata alcuna diagnosi prenatale. Da una parte mi viene da dire: menomale, altrimenti uno si sarebbe fatto molte domande su cosa avrebbe rappresentato la mancanza di una mano. Dal­l’altra, se non sai nulla, ti aspetti che nasca con due manine, come ti avevano detto. Quindi c’è stato un momento iniziale di shock».

Inevitabile. Come ricorda quel momento?
«Quando è nato Jacopo l’ho sentito piangere e, come tutte le mamme, la prima cosa che ho domandato è stata: “Sta be­ne?”. Non ho ottenuto alcuna riposta per un tempo che non so quantificare. Al che è sopraggiunta in me una sensazione di panico. Il fatto è che anche medici e infermieri sono stati spiazzati. Dopo un po’ mi ha risposto l’ostetrica, che conoscevo per aver fatto con lei il corso preparato. Con grande dolcezza mi ha detto che il bimbo stava benissimo, era bellissimo e aveva solo una manina più piccola rispetto all’altra. Da mamma, quando ho sentito “sta bene” mi sono rilassata».

Dopo quel primo momento di comprensibile spiazzamento, come è andata?

«Una volta a casa, sia per me che per il padre di Jacopo è stato tutto più semplice, anche grazie alle nostre famiglie. Se avessero vissuto questa condizione di Ja­copo come un problema o una vergogna, sicuramente sarebbe stato diverso».

Come vi siete difesi dal primo sguardo comprensibilmente sorpreso della gente?
«È stata la cosa di cui più abbiamo avuto timore. Per questo quando è nato abbiamo subito detto a tutti della mano. Perché chi si avvicina alla culletta, vedendo una manina soltanto, d’istinto può lanciare uno di quegli sguardi che fanno male».

Jacopo quando ha capito che c’era qualcosa di diverso?

«Quest’estate. Aveva solo due anni e mezzo e non ce l’aspettavamo, perché la psicologa ci aveva detto che avrebbe iniziato a farsi domande intorno ai tre anni e mezzo. Invece un pomeriggio era con suo padre e, indicando l’arto sinistro, gli ha chiesto “perché questa non c’è”?».

Come avete risposto?
«Ivan (il compagno di Nadia, ndr) ha glissato sulla domanda perché non sapeva come rispondere. Così il giorno dopo lo ha chiesto alle maestre del baby parking. Al che gli abbiamo detto la verità. Eravamo d’accordo di non raccontargli favole o mettergli in testa che poi sarebbe cresciuta. Era un messaggio sbagliato quanto farlo sentire un bambino speciale per via della manina mancante. Come ci ha spiegato la psicologa, crescere un bambino con quella convinzione farà si che ritenga sia quella mano a renderlo qualcuno. Così gli abbiamo detto che quella era una manina diversa dall’altra, più piccolina, ma che sarebbe riuscito a fare le cose come gli altri bimbi. Qualche tempo dopo, al mare una coppia di gemelli gli ha chiesto come mai avesse quella mano e lui ha detto “perché sono nato così”, scrollando le spalle. Ai bambini è bastata quella risposta».

Il momento della sua presa di consapevolezza è stato il più difficile da vivere come genitore?
«Da genitore ti vengono ansie e paure in cui cerchi di non trascinare tuo figlio. Nel momento in cui lui si è reso conto della situazione, ti domandi se si farà gli stessi film mentali che ti sei fatto tu; se sarà capace di fare tutto; se già sta perdendo la sua innocenza; se riuscirà ad accettarsi come l’abbiamo accettato noi…

Molte risposte però, le sta dando giorno dopo giorno.
«So che, in un altro modo, farà tutto ciò che fanno gli altri bambini. Per quanto ci venga voglia di aiutarlo, lo incoraggiamo a fare tutto in autonomia: si mette le scarpe da solo, i calzini, va in bagno».

Accanto alle difficoltà nella gestione della protesi ce ne sono di psicologiche?
«Dopo la mano estetica, che non usava, avevamo deciso di non fargli più fare alcuna protesi sino a quando non sarebbe stato più grande. Durante il “lockdown”, però, ha iniziato a usare la bicicletta e lì la protesi serve perché tenendo le mani sul manubrio devi stare necessariamente storto se non hai un tutore. Abbiamo cercato una soluzione tra i vari negozi di ortopedia di Cuneo e siamo arrivati al Maria Adelaide di Torino. Sono stati loro che vedendo Jacopo ci hanno proposto la mano bionica e lui ci è sembrato pronto. Così abbiamo decido di intraprendere il percorso della protesi.

Che obiettivi vi date per il futuro?

«Vogliamo permettere a Jacopo di conoscere tutti i tipi di protesi sul mercato, in maniera tale che quando sarà adulto potrà dire se vuole quella mioelettrica, quella estetica, quella bionica, o semplicemente vorrà essere Jacopo senza niente altro».