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«Luca Attanasio ormai è uno di famiglia»

Tempo fa ad Angelo Ponti fu commissionato di dipingere un quadro che ritraesse la famiglia dell’ambasciatore ucciso. Un magnifico regalo mai ritirato

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La storia di Luca Attanasio, l’ambasciatore italiano ucciso in un attentato a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo, ha colpito l’opinione pubblica. Insieme alla moglie, Zakia Seddiki, madre delle sue tre bambine e fondatrice dell’associazione umanitaria “Mama Sofia”, sorridono immortalati nel quadro dell’artista bovesano Angelo Ponti, in un ritratto di famiglia che ora acquista un valore nuovo e speciale.

Signor Ponti, come è nata l’idea di questo ritratto?
«Sono stato contattato tramite mia sorella dalla famiglia che aveva visto e apprezzato miei precedenti lavori. Era un pensiero della mamma per il figlio. Partendo da una fotografia ho ricreato un disegno a carboncino su tela, l’ho poi terminato con colori a olio tenuti abbastanza liquidi, procedendo per veli leggeri. Con questa tecnica l’esecuzione ha richiesto un po’ di tempo, ma in autunno il quadro era pronto, solo la pandemia ha impedito che venisse ritirato. E ora è qui con me».

Come ha reagito alla notizia dell’attentato?
«È stata dura. Quella mattina stavo facendo colazione, sono rimasto impietrito quando ho sentito della tragedia al telegiornale. Un po’ come era successo quando è mancata mia moglie, sono rimasto seduto per non so quanto tempo senza parole e senza trovare la forza di alzarmi. Luca, da quanto mi raccontano, era una persona rara, un padre attento con le figlie e molto unito alla mo­glie, anche lei una donna speciale, impegnata ad aiutare altre donne. Mentre dipingevo l’opera ero particolarmente ispirato, sentivo dentro qualcosa di unico e il pennello correva veloce. Tutti i giorni ora vedo Luca in quel quadro, lo sento parte della mia famiglia».

Nel quadro che raffigura la famiglia Attanasio si nota una pittura fotografica. Dove ha imparato questa tecnica?
«Ho iniziato la mia carriera lavorativa come incisore. Allora si usavano zinco e rame, ba­sta­va un piccolo errore per rovinare l’opera. Così mi sono abituato alla precisione millimetrica. Ho studiato a Milano, al Castello Sfor­zesco e poi, come incisore e fotolitista, ho collaborato con gli editori italiani più importanti. Sempre con in mente la precisione del dettaglio».

Ma che cosa succede se in un quadro si sbaglia?
«Si aspetta e poi si corregge. Nessun errore è irreparabile. Ritocco fino a quando sono soddisfatto, solo allora firmo».

Le succede mai, come agli scrittori, che i personaggi delle sue opere la seguano?
«Sì, penso ai quadri a cui sto lavorando anche fuori dallo studio. Se un particolare non mi soddisfa mi capita di buttare i pennelli e dedicarmi ad altro, magari una passeggiata. Qualche giorno fa non riuscivo a rendere vivi gli occhi di una bimba, non avevano l’espressione che desideravo nonostante le diverse correzioni. Così ho lasciato il quadro e sono uscito. Poi, nel cuore della notte, mi sono alzato e in un attimo la mano ha trovato le pennellate giuste.

Il risultato dipende quindi dal suo stato emotivo?
«Sì, mi immedesimo in quello che faccio, entro nel quadro, lo “sento” dentro di me. Quando dipingo il mondo esterno non esiste più. Non mi accorgo nemmeno se suonano il campanello».

“La pittura è solo un altro modo di tenere un diario”, diceva Pablo Picasso. Che ne pensa?
«È vero, quando guardo i miei quadri rivedo quello che ho passato, le sensazioni esatte che provavo. Quando rivedo un mio dipinto torno davvero indietro nel tempo. Posso raccontarle una storia?».

Prego…
«Ho in casa un quadro che feci a undici anni. Mi avevano appena regalato una scatola di tempere e dipinsi un mazzo di gladioli per mia mamma. Quando li vide lei rimase strabiliata e mi riempì di complimenti. Ogni volta, quando lo guardo, risento le sue parole esatte, il suo incoraggiamento, il mio sentire attraverso quella sua reazione che avevo trovato una strada».

Altre storie nascoste dentro le sue opere?
«Ho un quadro che ricorda una scappatella a scuola. Invece di se­guire la lezione di anatomia, realizzai un disegno interamente a spatola. Il professore, dopo avermi rimproverato, ammise che era un’opera di valore».

Un momento difficile?

«Le mani di un “clown” a braccia aperte. Ho provato per quindici giorni a creare la giusta profondità, dipingevo con una mano aperta per trovare la prospettiva esatta ma senza successo. Poi un giorno l’illuminazione: nel corso di poche ora era perfetto! È stata una soddisfazione enorme».