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«Mia madre, premio nobel legata al monregalese»

Intervista a Oriane Gavronsky, che da Briaglia racconta l’emozione di essere la figlia della scrittrice Nadine Gordimer

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Dalle colline di Briaglia dove vive Oriane Ga­vron­sky il Mon­re­ga­lese lo si abbraccia con lo sguardo: le sue campagne, le aree urbanizzate, le alture che fanno da cornice sono immerse nel silenzio di un sole che annuncia la primavera. Un territorio, a noi così familiare, che Nadine Gordimer, Premio Nobel per la letteratura nel 1991, madre di Oriane, ammirava a tal punto da farne sfondo di alcuni suoi scritti.

Oriane, che rapporto aveva Nadine Gordimer con il nostro Paese?

«Mia madre è sempre stata affascinata dalla cultura italiana: adorava Moravia, Levi… E nutriva un’autentica passione per il cinema di Fellini. Aveva un forte legame con la famiglia Feltrinelli. Ma il rapporto più stretto con l’Italia lo realizzò quando mi sposai con Alain, la cui famiglia era di origini piemontesi».

Come si creò il legame con la provincia di Cuneo?
«Erano gli anni Settanta, venivamo spesso in vacanza a Pianvignale, da dove proveniva la famiglia di mio marito. Un periodo bellissimo: i balli del sabato, le sedie fuori di casa la sera, le chiacchierate nell’aia, le persone che cantavano di collina in collina… Scrissi di tutte queste cose a mia madre e lei, incuriosita, ci raggiunse. Era affascinata dal paesaggio. Fu a Pianvignale che nacque il racconto “Lucie”. Si metteva a scrivere sul terrazzo di quella vecchia casa, la sera. Erano mo­menti quasi spirituali».

Cosa la ispirava in particolare?
«Il cimitero. In Sudafrica non c’era la tradizione delle tombe di famiglia, perciò mia madre era colpita da queste strutture che erano come un libro di storia. Aiutavano la presa di co­scienza della propria identità. In Sudafrica, un paese “nuo­vo”, le storie familiari, degli antenati, erano completamente estranee al nostro modo di vivere. Conoscere il proprio passato attraverso i propri avi aiuta invece a prendere co­scienza di chi si è realmente: è questo lo spunto che ritroviamo in “Lucie”».

Osservare, capire, raccontare: era questa la ricetta?
«Sì. Mia madre è nata in una famiglia non colta. È cresciuta grazie alla sua enorme curiosità. A 12 anni aveva già letto tutti libri di Proust. Alla passione per la lettura affiancò presto quella per la scrittura. La scuola la annoiava, usciva con il suo quaderno e passava ore a li­berare la sua immaginazione, e a scrivere. Aveva grandi oc­chi aperti sul mondo: sin da ragazzina si guardava attorno e si faceva domande. Abitava in un piccolo villaggio minerario, si chiedeva come mai i neri facessero i lavori più umili, perché non andassero a scuola coi bianchi. La sua coscienza sociale maturò molto presto».

Quando arrivò la svolta?
«In biblioteca scoprì l’Europa, che le forniva tanto materiale per la sua immaginazione. Ma fino a 25 anni non mise mai il naso fuori dal Sudafrica. All’epoca di “The lying days” non era ancora famosa, non aveva risorse per viaggiare. Conobbe Reinhold Cassirer, un uomo maturo, fuggito dalla Germania nazista, membro di una importante famiglia di filosofi e collezionisti di arte. Amava viaggiare, e portò mia mamma con sé: il primo viaggio fu su una nave, lungo tutta la costa africana, fino a Londra. Visitarono Parigi, ascoltarono Edith Piaf in concerto. Era realmente incantata. Nel frattempo continuava a scrivere e le recensioni erano sempre più positive».

E l’impegno politico?

«Quello verso il suo Paese non è mai mancato. Era completamente assorbita dalla lotta contro le disuguaglianze sociali. Metteva la sua fantasia letteraria a servizio degli ideali, basandosi su cose concrete che viveva tutti i giorni. In piena “apartheid” aveva comunque relazioni con persone di colore. Si prendeva dei rischi. Inco­raggiava gli amici neri che avevano talento a esprimersi. Aderiva all’Anc, dove entrò in contatto con Nelson Mandela».

Che rapporto era il loro?

«Mandela era il suo “dio”. Si conoscevano personalmente, si scrivevano anche quando lui era imprigionato a Robben Island. Ha influenzato di tanto i temi che trattava; e lui teneva in grande considerazione il suo parere. Le avevano chiesto di scrivere una sua biografia, ma rifiutò: lei, donna bianca, non si sentiva di scrivere della vita di un uomo di colore. Avrebbe dovuto farlo uno di “loro”».

Come definirebbe Nadine Gor­dimer donna e scrittrice?

«Non aveva un carattere facile, era molto schietta, autoritaria. Aveva una lingua tagliente. Non ha mai tradito i suoi ideali. Non è mai stata un autore “popolare”: la sua letteratura era troppo impegnativa. Per questo, oggi il grande pubblico l’ha un po’ dimenticata».

Aveva un modo di esprimersi preferito?
«Le piaceva molto il racconto. Diceva che era l’essenza, la concentrazione delle cose».

Pensa che la sua scrittura abbia influenzato il cambiamento del paese africano?
«In Sudafrica le cose sono realmente cambiate dopo le sanzioni che minacciavano di soffocarlo economicamente. Certo, gli scritti di mia madre hanno aiutato la presa di coscienza nel mondo. La letteratura ha in­fluenzato la mentalità delle persone e costituito la base per i gruppi “anti-apartheid”».

Si sentiva in pericolo?
«Non poteva criticare apertamente, rischiava la prigione: il solo motivo per cui ha mantenuto la libertà è che era famosa in tutto il mondo».

Come viveva il fatto che i suoi libri in patria fossero censurati?
«Per lei era frustrante, ingiusto. Era furiosa. Perché era consapevole che quanto scriveva poteva essere un conforto per il suo popolo».

Il Nobel la rese diversa?
«No. Fu tra le papabili per molto tempo, diceva sempre che non le interessava. Rimase la persona che era, molto modesta; non dimenticò mai le sue origini. Certo, dopo il Nobel arrivarono i bellissimi viaggi, gli incontri, le conferenze… Era tutto superbo, ma anche molto impegnativo. Ricordo sacchi di corrispondenza solo per lei. Per la prima volta in vita sua dovette assumere un segretario».

A fine “apartheid”, le tematiche dai lei approfondite nei libri cambiarono?
«Ha scritto sempre sul Su­dafrica, di rapporti completamente nuovi tra la popolazione, di altre problematiche come la corruzione. Ha continuato a rispecchiare la società sudafricana in tutta la sua profondità. Con uno stile diverso, più astratto, forse con meno compassione, ma con una profondità e una ricerca della perfezione di scrittura assolute. Diceva che la sua scrittura doveva essere il più impegnativa possibile per stimolare la riflessione da parte del lettore».