«Trovo gente che non ha mai letto la saga di Bramard e Arcadipane. Quei due sono la risposta del Nord al commissario Montalbano!». Così Alessandro Baricco riassume i protagonisti della saga di Davide Longo, torinese e insegnante alla scuola Holden, in libreria con l’ultimo episodio della serie, “Una rabbia semplice”, edito da Einaudi e tra i libri più venduti dell’ultimo periodo. Estranei al calore del sud, i protagonisti di Longo si spostano nei casi sui cui indagano e nella loro vita con un piglio sabaudo che li scherma e, per pudore o per non disturbare, li protegge dagli eccessi. Si muovono per sottrazione, si innamorano per accidente. Mentre seguiamo il commissario Vincenzo Arcadipane e il suo mentore Corso Bramard nelle loro traiettorie sghembe tra una Torino poco urbana e una montagna poco verticale, scopriamo che il delitto si fa laterale e quello che vogliamo è seguire le loro vite terrose, disperate e per questo irresistibili. Cosa li salva, allora? Un’ironia tagliente, un paio di pareti da scalare per Bramard e una manciata di sucai da masticare nelle tasche di Arcadipane. E un segreto che li lega: l’intraducibile e piemontesissimo “gheddu”.
Baricco paragona i suoi personaggi al commissario Montalbano, che ne dice?
«Direi che è un gioco sul paradosso. Mentre i romanzi di Camilleri hanno sullo sfondo la leggerezza solare del sud, nei miei c’è il nord con i suoi elementi di nebbia, malinconia e nostalgia. Sono universi lontani che dimostrano però quanto conti nella definizione del “mood” di una storia l’ambiente in cui sono nati».
Scusi, sento che mastica. Non starà mica mangiando un sucai?
«In effetti…»
Anche lei ne è dipendente come Arcadipane?
«No! Mi servivano per una foto. Non li mangio mai…».
Non ci crediamo, naturalmente. Se dovesse fotografare i suoi romanzi con una definizione: sono gialli o noir?
«Preferirei definirli “maròn”. Vorrei creare un nuovo genere letterario, prendendo in prestito la tonalità dal “tinello maròn” cantata da Paolo Conte. Quella tinta non è solo un colore: è un sentimento, una nostalgia di qualcosa di passato che tende a tornare, un mondo di valori condivisi. I miei libri sono dei maròn».
Oltre alla nostalgia c’è chi ci ha trovato anche “un goccio di disperazione”.
«È una disperazione in salsa piemontese, contenuta. I piemontesi hanno questo tratto, che viene scambiato per ipocrisia, ed è invece il desiderio di non dare disturbo, di non buttare addosso agli altri i propri stati d’animo. In un Paese dove la spontaneità è considerata sempre un valore, io invece credo che un filtro, una mediazione tra quello che sentiamo e quello che comunichiamo agli altri sia una forma di civiltà e di educazione. Il piemontese la disperazione la trattiene, la centellina e soprattutto la riveste. Siamo campioni di “packaging”, abili nel creare un contenitore accettabile per un contenuto non sempre così piacevole. Nei miei romanzi la disperazione è mascherata in una forma più lieve, l’ironia».
Il suo modo personale per non disturbare?
«Trovo utilissimo il filtro del silenzio. Su dieci cose che vengono in mente bisognerebbe dirne solo due. E anche quelle, in modo sintetico. Essere diretti è una forma di rispetto verso le persone».
Anche nella scrittura?
«Nella scrittura la confezione è fondamentale. L’uso della parola non è solo lo strumento di servizio ma è qualcosa che porge la storia al lettore trasformandosi così in sostanza. La mia scrittura è molto piemontese. È diretta. È reticente, perché sceglie con attenzione le cose da dire e quelle che il lettore deve collegare da solo. È il più possibile curata e bella da vedere».
In effetti fa compiere ai suoi lettore salti notevoli…
«Scrivo i romanzi che vorrei leggere e io non amo le trame troppo lineari. Ci devono essere capovolgimenti e cose che appaiono in un modo e si rivelano in un altro. Il primo è più intricato. Nei seguenti le istruzioni di montaggio sono più semplici».
Nei primi romanzi la lingua era ricca di neologismi e tratti audaci, mentre in “Una rabbia semplice” si è fatta più piana, perché?
«Ha presente quando si va in ferramenta a comprare la cartavetro? Ci sono diversi gradi di ruvidezza. Lo stesso succede qui: nel corso della serie la lingua si affina. Nel primo è secca, tenebrosa, asciutta come il montagnardo Bramard. Nel secondo i due protagonisti si giocano il palco e la cartavetro è una mediazione. Nell’ultimo, in cui Arcadipane è in primo piano, la lingua diventa ibrida, lascia i tratti più piemontesi per abbracciare l’immaginario del commissario di origini lucane».
La lingua quindi cambia a seconda del personaggio che racconta?
«La scrittura deve mettersi a servizio della storia e non viceversa. Altrimenti si rischia di scrivere romanzi con un margine di movimento limitato, come quando si rimane agganciati a un unico protagonista. Nella mia serie convivono diversi personaggi determinanti e questo mi permette di usare molteplici registri e di esplorare toni lontani dal mio. Noi infatti non siamo solo ciò che siamo, ma anche ciò che aspireremmo ad essere, ciò che abbiamo paura di essere, ciò che siamo senza saperlo, ma gli altri lo sanno».
Nel cocktail del suo stile, Baricco cita “2 parti di Fenoglio, 2 di Simenon, 1 di Paolo Conte”. Chi manca all’appello?
«Già questi basterebbero… Aggiungerei lo scrittore statunitense Cormac McCarthy che contribuisce ad aggiungere una certa vena epica, la stessa che io ritrovo anche in Fenoglio».
I suoi personaggi hanno il “gheddu”. Ci spiega che cosa è?
«Il “gheddu” è un tratto che contraddistingue alcune persone, al di là dell’intelligenza, e può esprimersi davanti a un problema matematico, a una traduzione o alla sistemazione di un mobile. È la capacità di scorgere quello che gli altri non vedono, di percepire qualcosa che per altri non compare nemmeno nello spettro delle possibilità. Quelli che hanno il “gheddu” non sono i migliori in assoluto, ma quelli che vorresti vicino se ti trovassi in una situazione problematica. Sono le persone che il mondo di oggi ricerca in maniera esasperata».