«Due frammenti di un codice della Commedia del secolo XIV. Uno di questi frammenti costituisce il foglio di guardia, membranaceo, del volume degli Ordinati del 1603, e comprende quattro pagine, ciascuna su due colonne; l’altro serve da dorsale allo stesso volume. Le iniziali di ogni verso erano originariamente rosse ed azzurre, e tutto il codice doveva essere assai elegante, sia per tali iniziali, sia per la nitidezza del carattere e la finezza della membrana». Il professor Ferdinando Gabotto è stato il primo, con queste parole, a riportare alla luce quelle pagine, una manciata di pagine divise in poche colonne, un po’ stropicciate dal tempo. Si sa che fu probabilmente un copista dell’Italia nord-orientale a realizzare il manoscritto, ma non ci sono certezze su come il documento sia arrivato in Piemonte: forse, ma rimane solo un’ipotesi, fu proprio quello Stefano di Ricaldone che a Lagnasco si dedicò nel XV secolo a commentare l’opera del poeta fiorentino a portare quei canti della Commedia sul nostro territorio. In ogni caso, il frammento parla e ci racconta di quanto sia stata, fin da subito, capillare la diffusione della Commedia. Di Dante e della sua Commedia tutto è già stato detto e scritto, ma non dimentichiamo mai la sua ricchezza lessicale e linguistica che, anche in un’epoca di scarsa diffusione culturale come il XIV secolo, la rendevano un efficace “vocabolario”, copiata e ricopiata fin dai primi anni. Pur lontani dalla attuale consapevolezza della centralità del testo dantesco per la nostra storia, gli uomini del tempo riconobbero immediatamente nella Commedia (l’aggettivo “divina” è un aggiunta successiva da attribuire al grammatico veneziano Lodovico Dolce intorno alla metà del ’500) una grande summa del pensiero medievale in grado di trascendere il tempo, capace, soprattutto, di portare uno straordinario contributo allo sviluppo della lingua italiana: ci vorranno sette secoli e l’arrivo della televisione per unificare linguisticamente il nostro Paese ma, a una attenta rilettura, molto si ritrova già dentro il racconto del viaggio di questo fiorentino orgoglioso, che voleva dedicare alla sua amata “quello che mai non fue detto d’alcuna”. Indubbiamente, però, ridurre la complessità della Commedia al solo “amor che move il sole e le altre stelle” sarebbe semplicistico. Dentro c’è in effetti di tutto: politica, filosofia, satira, poesia e, di fondo, un gusto tutto toscano per il parlare salace e piccante. C’è Dante che si prende la sua rivincita contro gli avversari politici della Firenze del Due e Trecento, c’è la comparsa sulla scena delle più importanti figure religiose e civili dell’Italia medievale, c’è finzione e realismo, c’è la spiegazione di un ordine del mondo che, al di là di una certa tendenza contemporanea nel vedere un Dante progressista e illuminista, si esprime solo attraverso il filtro di quel Dio onnipresente nella testa degli uomini del tempo. Ci sono voluti i vent’anni più duri della vita del poeta per comporre questa magnifica epopea, vent’anni passati a girovagare da una corte all’altra dell’Italia del nord perché rifiutato dai suoi concittadini fiorentini, che lo accusavano, con un’inclinazione alla bega politica mai scomparsa, di essersi fatto barattiere, di essere, in soldoni, un politico corrotto e perciò meritevole della condanna più severa. L’Alighieri troverà la salvezza nell’esilio, facendo diventare la sua vita, involontariamente, il manifesto di una cultura capace di volare oltre i rigidi confini dei comuni medievali. Per qualche motivo ancora poco chiaro un pezzo di questo viaggio è arrivato fino a noi, a Verzuolo, nella nostra provincia: e allora, a settecento anni esatti dalla scomparsa del poeta, tocca a noi raccoglierne l’eredità e, anche nel Cuneese, celebrarne, nel ricordo della morte, la straordinaria vita e raccogliere della sua opera quanto (ed è molto) vi è di irrinunciabile.