Più immagini, e più modi per capire come la misura sia quasi colma, nel Roero: per comprendere che è il caso di fermarci con la mente, se non con le gambe, impazienti di tornare a correre dopo oltre un anno di blocchi, chiusure e “congelamenti”.
E’ la natura che, forse, ce lo sta chiedendo: facendo appello al buon senso, al vivere comune. In una realtà in cui l’opinione pubblica si dibatte nell’eterno duello tra perbenismo e indignazione (alla fine, gli allibratori danno sempre il primo come vincente: la seconda, però, scalpita alle spalle), la partita parallela si gioca tra a tre: in un mènage complicatissimo in cui si mischiano il rapporto con la terra e l’ambiente, la partecipazione attiva e passiva alla quotidianità circostante, e un’incuria che spesso va a sfumare in tinte cupe, pericolose, addirittura micidiali per il prossimo.
Non importa se i rischi sono immediati, diretti o più a lunga scadenza: il territorio non è un cartone del latte. E, se proprio vogliamo forzarne il paragone, occorre che tutti ne possano bere senza che qualcuno lo faccia diventare rancido.
Vino, tartufi e sentieri? Sì, ma possibilmente senza incappare in discariche abusive che fioriscono continuamente: anche sotto gli stessi cartelli che impongono i divieti di abbandono, precisando importi delle sanzioni e rilievi penali. Si parla molto, della questione, in questi anni e mesi: talvolta, in modo se si vuole distorsivo, attribuendo questo fenomeno alla progressiva introduzione del sacchetto prepagato -e fornito in quantità fisse, oltre le quali ogni surplus viene fatto pagare in misura pari al costo per smaltirlo- tra i Comuni della zona.
Non è una scusa, non è una ragione: anche perché, chi compie questi gesti, la tassa sui rifiuti la paga comunque (si spera, ci si augura) e continua a ragionare con la logica “pago, e faccio quel che voglio”. E ci aggiunge anche un “qualcuno ci penserà, a ripulire tutto”. Purtroppo.
E’ qui che subentra la partecipazione attiva: quella dei volontari, che magari portano via un po’ del loro tempo, sacrificando quello per gli affetti e le loro famiglie, e si buttano con il corpo e con l’animo nel ripulire ciò che altri hanno sporcato. Sono persone normali, non eroi: e che, se alla fine della giornata, postano una foto sui social networks per raccontare ciò che hanno fatto, non è necessariamente per farsi dire ‘bravi’ dalla gente. Fanno bene, ci mancherebbe: il problema è che tutto ciò, da solo, rovescia la spirale dell’educazione civica.
Bene, dunque, chi si rimbocca maniche e risvolti per andare nei boschi: a monitorare, come nel caso delle “Sentinelle del Roero”. A sgombrare rifiuti. Ma servono pure punizioni esemplari: affinché, quando la giustizia fa il suo corso e le Forze dell’Ordine riescono a individuare i colpevoli (e lo fanno: come è accaduto, ad esempio, nei giorni scorsi a Montaldo Roero) si dia davvero motivo per capire che non si poteva fare, non si può e non si potrà insozzare l’ambiente a piacimento. A costo di qualche gogna mediatica.
Chi ha teso questo cavo, se mai leggerà queste righe -c’è anche il dubbio che non ne sia in grado, e chiedo scusa per l’alterigia: l’amarezza è tutta voluta- si faccia un esame di coscienza e sappia che un gesto così stupido non può essere preso come uno scherzo. Ci poteva scappare il morto, a volerlo scrivere a chiare lettere: e se tutto è stato dettato dall’antipatia verso chi ama andare a passeggio per la campagna in sentieri pubblici, magari anche in lieve e indolore “libera uscita” dalle regole della Zona Rossa, l’autore di questo gesto faccia un favore. Ossia, applichi il proprio personale lockdown: totale, possibilmente.
Emerge persino il conflitto nel tacerle o diffonderle, notizie di questa portata, troppo gravi per sembrare un pesce d’aprile mal riuscito, malato, mal pensato: ma il fatto che accadano queste cose folli, da queste parti, è troppo grave per essere nascosto.
In ultima analisi, come un margine tracciato a centro pagina, c’è la questione dei cinghiali: troppi, incontrollati, nonostante la buona volontà di dare vita a battute di caccia selettive, al desiderio di alcuni sindaci di fare fronte comune e segnalare la questione agli organi competenti, a disegni di legge in corso, urgenti.
E’ chiaro come l’abbondanza di ungulati non sia un problema che si è generato da solo, da un giorno all’altro: e che, in qualche misura, il popolamento selvatico sia un tema da gestire all’insegna della sostenibilità. Allo stesso modo, non è solvibile in poco tempo: ma la pazienza sta finendo (è già finita per coloro che, nei mesi scorsi, hanno manifestato insofferenza per i dissuasori acustici) e c’è più di un timore che -tra chi possiede armi, regolarmente denunciate, in casa- nasca e cresca il comprensibile desiderio di farsi giustizia da sé.
Tutto ciò accade qui, in un intero anno condizionato da un conflitto vitale come quello che solo un virus può generare: in un territorio in cui spesso tocca fare anche il conto tra il tocco dell’uomo e le linee del paesaggio, e talvolta basta un nubifragio per rendersene conto.
“E’ l’acqua che ha memoria”, dicevano i nostri anziani: è la natura che presenta il conto. E -si badi bene- non dice di smettere di lavorare: c’è già chi lo fa, al posto suo.
Soprattutto, è l’essere umano che deve mettere cognizione, per dirla con un’espressione tra italiano e piemontese. Forse, davvero l’ambiente cerca di dirci “ascolta”.
Paolo Destefanis