Boris Johnson, premier britannico, non è soltanto un politico. Le biografie spiegano che è giornalista e scrittore. E uno dei suoi libri, in questi giorni, diventa contrappasso felice. Il titolo è “The Churchill Factor”, un po’ ritratto storico e un po’ agiografia, ha chiare venature di ammirazione e, per alcuni, leggere tracce di invidia.
Johnson rievoca nelle sue pagine come Churchill riuscì a unire il Paese durante la Seconda Guerra Mondiale, trasmettendo fiducia alla popolazione in un momento difficile e portandolo alla vittoria attraverso “lacrime, sudore e sangue”. Johnson, sostiene certa critica, s’è ispirato e specchiato, sentendosi custode di quello spirito, erede di quel pensiero. Il coronavirus , per lui, è stato la guerra mondiale di Churchill (caduti, paura, crollo economico) e in stile Churchill s’è accostato al nuovo flagello, magari addirittura chiedendosi cosa l’illustre antenato avrebbe fatto e scegliendo, rispondendosi, parole e strategie.
Peccato che l’iniziale atteggiamento si sia rivelato un “boomerang”, con la cruda franchezza del primo discorso (“Voglio essere onesto, molti di voi perderanno i loro cari”) apparsa insensibilità e con la sfida di stringere mani bollata giustamente di arroganza e ignoranza. Quando s’è ammalato di Covid, molti hanno visto una catarsi, lui ha sfidato ancora facendosi fotografare con il braccio alzato, pur senza il segno di vittoria, nello stesso luogo e nella stessa posa del suo riferimento, e quando s’è aggravato in tanti hanno scacciato via il dispiacere, convinti che se la fosse cercata e ben gli stesse. In quei giorni Johnson era una brutta copia di Churchill, un imitatore scalcinato e inopportuno, un esempio cattivo, un pericoloso sbruffone. Ha sbagliato, ha ecceduto, ma ha saputo ammetterlo: ha pagato il suo atteggiamento sfiorando la morte, ha abbandonato la strategia ma non l’aggressività. «Ho un desiderio travolgente: rimettere in piedi questo Paese», disse appena dimesso dall’ospedale, ringraziando commosso gli infermieri e ricordando la paura di non farcela, “Ne ho abbastanza di questa malattia e la sconfiggeremo, come questo Paese ha sempre fatto con ogni invasore” urlò a ottobre durante un congresso. Lui, che aveva sottovalutato e predicato immunità di gregge mentre il mondo si barricava nel “lockdown”, ha continuato a combattere ma cambiato metodo, ha chiuso esercizi e bloccato voli, non ha esitato a fermare di nuovo il Paese quando s’è insinuata la variante, ha resistito a esasperazioni e polemiche, soprattutto è stato perfetto nell’elaborare un piano vaccini eccellente, a vincere la sua guerra con una macchina da guerra: all’alba del 2021 ha toccato un milione di dosi, più dell’intera Unione Europea. E così il Regno unito ch’era messo malissimo è adesso il primo Paese a rialzarsi, il primo a registrare meno di cento decessi, zero nella capitale dopo mesi di lutto. Johnson ha tirato fuori dall’emergenza l’Inghilterra con lacrime, sudore e sangue. «Ventre a terra» ha detto, cavalcando la metafora, prima di chiedere di tenere la guardia alta. Ha cacciato l’invasore, ha trascinato il popolo fuori dalla pandemia come Churchill dalla guerra mondiale. Ecco perché il libro è contrappasso felice. Non copia sbiadita, ma erede orgoglioso. Uomo politico che segue orme prestigiose.
Il Churchill 2.0
Lo storico premier guidò il Regno Unito fuori dalla Seconda Guerra Mondiale, Boris Johnson dalla pandemia: è il primo Paese a rialzarsi dopo errori e sbruffonate. Così il paragone non è più irriverente