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«Le persone amate ci accompagnano per sempre»

L’imprenditore Matteo Marzotto ricorda con affetto e commozione l’amico Pietro Ferrero, con cui aveva molti punti in comune

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Passione per lo sport, spirito di servizio alla comunità e consapevolezza di appartenere a una categoria di imprenditori impegnati ad alimentare progetti di crescita sostenibile, incentrati sulla persona. Sono questi i principali aspetti che univano in una bella amicizia Pietro Ferrero e il collega imprenditore Matteo Marzotto, sesta ge­nerazione della nota famiglia di industriali della lana attiva fin dal 1836.

Marzotto, era molto legato a Pietro Ferrero. Come lo co­nobbe?
«Me lo presentò un amico comune, Paolo Barilla. Di Pietro mi colpirono subito la simpatia, la semplicità e l’assoluta mancanza di sovrastrutture. Aveva un approccio che definirei, mi passi il termine, di “simpatica umiltà”. Non lo faceva per riscuotere consensi: era estremamente autentico e vero. E poi c’è un’altra cosa…».

La ascoltiamo volentieri.
«Pur ricoprendo un ruolo importantissimo e di grande responsabilità nella sua azienda era assolutamente accessibile e “immediato”. Qualità non comuni in questo ambito».

Insomma, fu simpatia a prima vista…
«Proprio così, anche perché condividevamo la stessa, gran­­de, passione per lo sport e per i valori che sa trasmettere. Era un vero atleta e in bicicletta se la cavava molto me­glio di me!».

Parlavate mai di lavoro?
«Un giorno gli dissi che avevo, come tutti del resto, una specie di legame culturale con la Ferrero e i suoi prodotti. A proposito, ho appena terminato un Pocket Coffee: irresistibile… Tornando a quel giorno, gli feci i complimenti per un nuovo prodotto della linea Kinder. Lui, in risposta, ricambiò subito, complimentandosi con me per l’acquisto della Valen­ti­no, una sfida tanto importante quanto impegnativa per la nostra realtà».

Fu l’unico confronto di carattere lavorativo?
«Ricordo pure un convegno “istituzionale” a Villa d’Este: anche in quell’occasione ebbi modo di ammirarlo per come seppe porsi».

Proprio come il compianto Pie­tro, anche lei proviene da una famiglia con un lunga e prestigiosa storia imprenditoriale alle spalle. Cosa significa crescere in un contesto del genere?

«È un’opportunità e, al contempo, una grossa responsabilità. Come dico sempre, partire con una propria iniziativa imprenditoriale può risultare complicato, ma portare avanti una realtà che obbliga a misurarsi con una storia im­portante è particolarmente dif­­ficile. Per questo, alla base di tutto, deve sempre esserci l’umiltà».

Come ci si districa in realtà aziendali del genere?
«Il punto è conoscere la storia che si è chiamati a portare avanti, in modo tale da poter comprendere se si è pronti e se si desidera calarsi in questo ruolo. Nel mio caso, pur non avendo ricevuto particolari indicazioni da chi mi ha preceduto, ho deciso di combattere per la storia della mia famiglia. Io, poi, credo in Dio e questi valori mi hanno sicuramente aiutato».

Anche la sua famiglia è stata purtroppo messa di fronte a dure prove, come ad esempio la scomparsa di sua sorella Annalisa, la cui vita è stata stroncata dalla fibrosi cistica…
«Annalisa aveva nove anni in più di me, ma eravamo molto legati. Per me era quasi una “vice madre”. Sono cresciuto sapendo della sua malattia, vedendola stare male e soffrire molto; poi, la fibrosi se l’è portata via: è stato il mio primo vero contatto con l’ineluttabilità della morte».

Cosa provò?
«Compresi che il distacco fisico non si sarebbe potuto colmare in alcun modo…».

È stato effettivamente così?

«Sì, purtroppo. Però, continuando a vivere, mi sono reso conto che lei era diventata una sorte di angelo custode. Ho preso coscienza del fatto che le persone amate non ci lasciano mai realmente: se ne vanno fisicamente, lasciando certamente un vuoto pesante, ma restano collegate a noi in maniera molto forte. Credo che sia questo ad avermi spinto a contribuire alla creazione della Fondazione Italiana per la Ricerca sulla Fibrosi Ci­sti­ca. In questa vicenda, c’è tanto di Annalisa. Oggi, questa realtà significa davvero molto per me: in parallelo ai notevoli progressi della scienza, la Fondazione ha operato come “acceleratore di conoscenza” relativamente alla malattia e ha assicurato il proprio contributo alla ricerca. Ciò mi riempie d’orgoglio e mi motiva a proseguire, so­prattutto in un periodo difficile come questo, in cui la pandemia ha complicato anche le nostre attività di auto­fi­na­n­ziamento. Devo di­re che l’Italia, pur tra mille contraddizioni, si conferma un Paese molto generoso».

Questa sua fiducia nelle persone si è tradotta, in campo imprenditoriale, in una continua valorizzazione delle ri­sorse umane, proprio come accade nelle realtà della Fer­rero. Come mai?
«Con l’egoismo e l’opportunismo non si va da nessuna parte, anzi. Mettere l’uomo al centro del proprio ragionamento economico conviene sempre, aiuta a costruire un mondo più bello. I grandi im­prenditori che hanno saputo investire sulle persone, alla lunga, non solo hanno creato un patrimonio di valore per loro stessi ma hanno lasciato un esempio concreto di cultura e bellezza, contribuendo al contempo a diffondere un utile spirito di emulazione».

Ci faccia un esempio.

«Ne faccio due. Michele Fer­rero che, nel settore dell’alimentare, è stato un punto di riferimento in tutto il mondo, e mio nonno Gaetano Mar­zotto: il valore dell’esempio che ci ha lasciato è di gran lunga superiore a quello dato dal­la somma della ricchezza e delle aziende che possedeva».

Cosa le hanno lasciato questi esempi?
«Ho imparato che nella vita nulla è garantito ma che ci sono valori, come l’umiltà, capaci di sconfiggere ogni male. Ho anche capito che nelle vittorie bisogna rimanere con i piedi per terra e che nelle sconfitte non bisogna abbattersi. Anche perché, di fronte alla vita, siamo ben poca cosa. Quindi, non temiamo di mostrarci umili e spontanei, proprio come faceva Pietro Ferrero. Impariamo ad ammettere gli errori e le paure, a chiedere scusa e, anche, a dire “ti voglio bene”».