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«I disegni mandati dai bambini operati sono il mio premio»

Dopo anni a Parigi, il canellese Luca Pio è tornato a fare il chirurgo pediatrico al “Gaslini” di Genova

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Il dottor Luca Pio, originario di Canelli, è il primo presidente dei Giovani Chirurghi Pediatrici Europei ed è stato da poco nominato capo della Commissione Giovani del Gruppo Mondiale di Chirurgia Oncologica Pediatrica. Ama Pavese, crede nel dovere morale di salvare i propri sogni e ai genitori dei suoi piccoli pazienti promette una cosa: la trasparenza. Tra i molti riconoscimenti e premi che ha ottenuto gli abbiamo chiesto quali siano quelli di cui è più orgoglioso. La sua risposta ci ha sorpreso, ma non troppo.

Partiamo dall’inizio, quali sono stati gli step della sua formazione?
«Nasco enologo poi, dopo la laurea in medicina a Genova con una tesi sulla chirurgia mini-invasiva nei tumori pediatrici, mi sono specializzato in chirurgia pediatrica al “Gaslini”, sotto la guida del professor Girolamo Mattioli. Ho lavorato per alcuni anni come “chef de clinique”, ovvero medico e ricercatore, all’Hôpital Necker Enfants Malades di Parigi sotto la guida della professoressa Sarnacki e, in seguito, in un centro di chirurgia epato-biliare, per poi passare all’Hôpital Robert Debré (professor Bonnard) e Kremlin-Bicêtre (professor Branchereau) dove ho approfondito le mie conoscenze di chirurgia robotica e laparoscopica. Da novembre sono tornato al “Gaslini” di Genova».

Se fosse rimasto in Italia sarebbe riuscito a fare tutto questo?
«Non penso. In Italia ci sono diversi ostacoli per la formazione dei chirurghi, uno dei maggiori è la cosiddetta “medicina difensiva”: i chirurghi ricevono quotidianamente denunce per questioni non imputabili a loro e questo fa sì che non sia facile lasciare la libertà a un giovane di operare, imparare e crescere»

È solo un’impressione o in Italia “giovane” è un aggettivo per i quarantenni mentre nel mondo i giovani hanno vent’anni?

«È vero. In Italia un giovane chirurgo in grado di operare in autonomia ha sui 45-50 anni mentre in Francia una trentina».

Perché ha scelto pediatria per la specializzazione?
«Normalmente la chirurgia è un campo molto settoriale, nella pediatria, invece, in sala operatoria si incontrano nello stesso giorno casi molto diversi e questo non solo è interessante ma permette anche di avanzare velocemente sulle nuove tecniche».

Che rapporto si crea con i genitori dei suoi piccoli pazienti?
«È una parte fondamentale del mio lavoro. A distanza di anni alcuni genitori mi mandano le foto dei bimbi che ho operato alla nascita e ora hanno quattro o cinque anni, è bello vederli crescere! Il rapporto con la famiglia è fondamentale, loro si affidano e noi dobbiamo essere trasparenti. È finita l’epoca in cui il chirurgo si limitava a dire “Voi non dovete conoscere i dettagli, ma solo sapere che io farò le cose per bene”. Prima spieghiamo tutte le procedure e anche le eventuali complicanze che si possono verificare mentre nel post intervento li seguiamo per valutare come procedere. Non è come nelle “fiction” dove il chirurgo si vede solo un attimo prima dell’intervento e poi sparisce, c’è un intenso rapporto che va ad di là dell’intervento stesso».

Avete a disposizione un aiuto psicologico?
«Purtroppo non esiste questa formazione. Molti di noi, per fortuna, hanno avuto grandi maestri che ci hanno insegnato come comportarci. La psicologia è la prima vittima dei tagli nella sanità così spesso non vi sono sufficienti figure di supporto psicologico per ogni reparto e le varie patologie del bambino, nella diagnosi e nel periodo post-operatorio, per cui ci troviamo da soli, noi professionisti e la famiglia, a gestire questi momenti delicati».

Non è una carenza enorme del nostro sistema sanitario?

«Purtroppo sì. Durante gli studi si seguono dei corsi di psicologia e psichiatria, ci sono i tirocini, ma la verità è che ciascuno cerca di formarsi autonomamente».

Come si fa a trovare le parole giuste?

«Ho scelto di dedicare il giusto tempo ai genitori per essere il più chiaro possibile, spiegare nel dettaglio l’intervento e le possibili complicanze e anche per presentarmi. Spesso la famiglia non conosce il professionista che prenderà in carico il suo bambino ed è importante rassicurarli anche da questo punto di vista».

Sul suo status di WhatsApp si legge “Il tuo unico dovere morale è di salvare il tuo sogno”…

«Per motivi personali ho avuto contatto presto con le malattie oncologiche e così ho cercato di formarmi in questo campo. Per questo non ho avuto remore ad andare lontano da casa per studiare, a New York e in Francia. Ora sono in Italia e spero di continuare qui il mio lavoro».

Cosa ne pensa dei medici che non si vaccinano?

«Io mi sono fatto vaccinare appena ho potuto. Non sono d’accordo con i medici che rifiutano la vaccinazione e la trovo una decisione professionalmente non condivisibile. Non sono un legislatore e non sta a me parlare di leggi, ma come medico e dal punto di vista scientifico non capisco questa scelta».

Il suo campo evoca timore, può darci invece una buona notizia?

«Sì. In questo momento ci sono tecnologie nuove come i robot che permettono di operare dei tumori che un tempo richiedevano tagli, cicatrici e dolori post-operatori pesanti. Oggi invece riusciamo con pochi buchini e un dolore ridotto a ottenere lo stesso risultato e garantire un tempo di recupero minore. È un grande segnale di speranza per tutti perché questi nuovi strumenti sono utilizzabili per tutte le patologie dei bambini».

Invece la buona notizia riguardo al Covid sembra essere che non colpisce la fascia pediatrica, lo conferma?

«Il Covid ha un impatto minore sui bambini perché il sistema immunitario è diverso e la risposta infiammatoria è meno importante. Il problema piuttosto è un altro: la paura che ritarda gli accessi in ospedale. Durante il “lockdown” nell’ospedale di Parigi dove lavoravo è stata registrata una riduzione dell’ingresso dei bambini pari al settanta per cento a causa del timore del contagio. Parlo di bambini che hanno rischiato grosso per un’appendicite trascurata. Lo ripeto spesso: ricordiamoci che le altre malattie non sono scomparse e non abbiamo timore di correre in pronto soccorso se necessario».

C’è qualcosa che le dà la carica nei momenti di sconforto?

«I disegni che mi mandano dei bambini che ho operato. Molti sono così piccoli che non sanno ancora parlare così mi regalano le loro opere d’arte, astratte e bellissime. Le conservo tutte con estrema cura e per me valgono più di tutti i premi che posso aver vinto».

Come la fa sentire tornare a Canelli?

«Torno volentieri nella mia terra per trovare la mia famiglia. Sono un pavesiano, sento molto il richiamo della terra, come nel romanzo “La luna e i falò”. Amo la frase: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Un giorno spero di poter tornare anche nella scuola enologica, dove tutto è iniziato».

BaNNER
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